Dicembre 06, 2024
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Lucciole #7
La newsletter di Voice Over
La storia che leggerai oggi è una di quelle che tiene insieme più pezzi, a prima vista scollegati tra loro. È una storia che passa e attraversa la frontiera mediterranea, il punto in cui si innestano processi di invisibilità e sfruttamento che segnano la vita dei lavoratori migranti. Da Lampedusa a Rosarno, da Beirut a Foggia. Dal locale al globale, la storia di Francesco Piobbichi tiene insieme le tante contraddizioni di questo sistema ecologia-mondo, il capitalismo, e traccia al tempo stesso una strada nuova, tutta da immaginare e percorrere.
Per conoscere la lucciola di questo numero, però, dobbiamo partire da due concetti chiave: il primo è “decolonizzare il linguaggio” e il secondo è “lavorare per i beni comuni”.
Ma cosa significa, intanto, “decolonizzare il linguaggio”?
Decolonizzare il linguaggio significa opporsi alla narrazione dominante, mettere in discussione e trasformare le narrazioni, le parole e le rappresentazioni che riflettono e perpetuano rapporti di potere coloniali, disuguaglianze e oppressioni. È un processo che va oltre la mera scelta di vocaboli: implica un cambiamento radicale nel modo in cui si raccontano le storie, si rappresentano le persone e si trasmettono idee.
Ad esempio, il modo in cui si parla di migrazione tende a inquadrare le persone migranti come problemi o vittime, senza tener conto delle loro storie, aspirazioni o sogni. Invece di parlare di "emergenza migratoria" che alimenta una percezione di paura e caos, si potrebbe parlare di "persone in movimento" o "mobilità umana". Oppure, invece di parlare di “migrazione irregolare”, si dovrebbe iniziare a parlare di diritto alla mobilità. Questo sposterebbe l'attenzione dalla "crisi" al diritto umano alla mobilità e alla complessità delle storie individuali.
Decolonizzare il linguaggio significa anche scegliere parole che restituiscano soggettività, agency e rispetto. E questo significa abbandonare la cosiddetta “pornografia del dolore” che sfrutta la sofferenza delle persone per suscitare empatia o shock ma senza creare un reale cambiamento. Decolonizzare il linguaggio significa anche scegliere storie che includano, valorizzino voci, esperienze e saperi di popoli e comunità che sono stati colonizzati, marginalizzati o esclusi.
Perché è importante? Intanto, per restituire una memoria - spesso cancellata o distorta dalle pratiche coloniali - e creare narrazioni collettive condivise, fatte dalle comunità stesse. Uno degli strumenti per decolonizzare il linguaggio è proprio la sperimentazione di nuovi linguaggi, come il disegno. Ed è esattamente ciò che fa Francesco Piobbichi per tutelare il nome, l’aspetto, la dignità della persona migrante ma al tempo stesso per raccogliere memorie e storie che devono essere tramandate.
Decolonizzare il linguaggio dunque è un atto politico e culturale che mira a costruire una società più giusta, equa e inclusiva. Non si tratta solo di parole, ma di immaginare un mondo diverso attraverso un linguaggio che ne anticipi i valori.
E a proposito di immaginazione e strade nuove, ecco il secondo concetto chiave di questa newsletter: “i beni comuni”.
Il concetto di bene comune è stato progressivamente fagocitato dalle logiche del capitalismo, che lo ha mercificato, trasformandolo in una risorsa da sfruttare per profitto, e dalla proprietà privata, che ne ha limitato l’accesso universale. I processi di accaparramento delle terre e delle risorse naturali hanno espropriato le comunità locali della loro capacità di gestione diretta, rendendole spettatrici impotenti. Anche lo Stato, assumendosi la responsabilità esclusiva dei beni comuni attraverso una gestione centralizzata e burocratica, ha favorito la delega e indebolito il senso di appartenenza collettiva. Di conseguenza, cittadini e comunità hanno smesso di prendersi cura attivamente della natura e dei beni comuni, vedendoli come qualcosa di distante, di altro, fuori dal loro controllo. Questo ha eroso pratiche comunitarie di solidarietà, autogestione, mutualismo e di gestione responsabile delle risorse.
Questo distacco dalla natura ha permesso a multinazionali, imprese e Stati lo sfruttamento “a buon mercato” di questi beni naturali - come terre, foreste, acqua, suoli - un tempo gestiti in forma comunitaria, scaricando tutti i costi ecologici e sociali interamente sull3 cittadin3 e sugli ecosistemi.
Perché dunque dobbiamo riappropriarci intanto dell’idea di bene comune?
Ripensare il bene comune significa restituire alle comunità il potere di gestire e proteggere ciò che appartiene a tutt3, sottraendolo alla mercificazione e allo sfruttamento da parte di multinazionali e istituzioni centralizzate. Questo processo consente di immaginare nuovi modelli di vita e di economia, a partire dalla riconnessione con la natura, e dall’accettazione dell’idea del limite, comprendendo che la crescita infinita del capitalismo è incompatibile con la finitezza delle risorse del pianeta.
Abbiamo scelto la voce di Francesco Piobbichi perché dentro la pratica della frontiera, del disegno e dell’immaginario, ci restituisce l’idea che una strada ancora da percorrere, sicuramente in salita, ci sia ancora.
Questa è la sua voce.
Grazie per essere qui con noi.
Buona lettura!
Il team di Voice Over
La voce di questo numero
Francesco Piobbichi è un operatore sociale, attivista e disegnatore impegnato a raccontare e trasformare le dinamiche delle frontiere, in particolare quella mediterranea. I suoi "Disegni dalla Frontiera", nati a Lampedusa durante il suo lavoro di operatore sociale con il progetto Mediterranean Hope, rappresentano un atto di resistenza narrativa e un’alternativa alla rappresentazione dominante, spesso pornografica, del dolore e delle tragedie migratorie. Piobbichi, autodidatta nel disegno, si avvale di una forma di racconto che tutela la dignità delle persone migranti, proteggendo nomi, volti e storie, e al contempo invitando alla riflessione collettiva su cosa sia oggi la frontiera, gli Stati-Nazione e le pratiche mutualistiche come forma di lotta, resistenza e nuovi immaginari. Si può riascoltare la sua intervista anche sulla pagina Instagram di Voice Over Foundation.
La voce di Francesco Piobbichi
“Gli Stati nazione oggi sono il problema dentro la nostra società. Dobbiamo assumere una forma di radicalità accompagnata da pratiche sociali che ci permettono di organizzarci per resistere, attraverso il mutuo aiuto, le cooperative dal basso, la solidarietà. Sai, parlando con un curdo, lui mi ha detto: “In Italia o lavorate per il capitale o lavorate per lo Stato. Nessuno lavora per il bene comune. Ecco secondo me questa è una strada che dovremmo percorrere".
Guai a chiamarlo artista. Il disegno per lui è un mezzo per tramandare memorie e storie, senza sfruttarle. Per Francesco Piobbichi, operatore sociale di Mediterranean Hope, disegnare significa politicizzare il racconto e restituirlo alla collettività, come un atto di resistenza contro la cancellazione delle memorie imposta dal potere. Se le persone, infatti, sono lasciate morire in mare, a causa di leggi razziste fatte dagli Stati come la Bossi-Fini, allora per Francesco è necessario che si raccolga memoria sulla frontiera e che essa diventi racconto collettivo, in un’epoca storica in cui si è bombardati di immagini e parole.
“Io vengo da una famiglia contadina, sono stato abituato ai racconti degli anziani che mi raccontavano la resistenza, lo sfruttamento dei contadini e come questi venivano mandati a morire in guerra dai fascisti. Ecco, questo racconto si è interrotto.
E togliere il racconto a una società secondo me è un po’ come ucciderla. La stessa cosa accade lungo la frontiera. Da una parte ci sono immagini che producono una narrazione dell'emergenza e della paura. Dall’altra si tende a cancellare i corpi, le prove e neutralizzare la memoria. Per esempio le Istituzioni commemorano la strage del 3 ottobre ma continuano a finanziare i lager in Libia e le milizie. Ecco noi dobbiamo riappropriarci di queste narrazioni con le pratiche: andando nei cimiteri dove ci sono i migranti senza nome, mettendo una lapide. Secondo me è necessario riappropriarci della memoria come atto collettivo”.
Attenzione però: per Piobbichi il racconto e il disegno non si slegano dalla pratica sociale, anzi, ne sono un mezzo. E, infatti, in questi anni di pratiche sociali sui territori, Piobbichi ne ha fatte parecchie. A partire dalle Brigate di Solidarietà Attiva, reti di solidarietà mutualistica, presenti nel 2011 durante lo storico sciopero dei braccianti a Nardò in Puglia fino ad arrivare a Rosarno, in Calabria, dove ha messo in piedi “Dambe So”, un progetto di diritto alla casa e consumo critico. In poche parole: 16 appartamenti dove vivono 60 lavoratori stranieri e una rete di distribuzione dal basso, costruita attorno alle chiese protestanti valdesi in Italia e Germania, che acquista agrumi biologici direttamente dai produttori agricoli di Sos Rosarno, senza sfruttamento dei lavoratori e della terra e senza il passaggio dalla Grande Distribuzione Organizzata. Perché, come spiega Piobbichi, “noi abbiamo un potere che non esercitiamo ed è quello del consumo, non personale ma dell’organizzazione del consumo. Dovremmo costruire una grande distribuzione auto-organizzata che unisca campagne e città, che metta al centro i beni comuni e l’uso sociale della terra, affinché si ricostruisca una relazione di comunità e prossimità tra centro, aree interne e marginalizzate”.
Dunque, la pratica sociale, il disegno come strumento di racconto e l’immaginazione. Sembrano questi i pezzettini scollegati che caratterizzano l’agire di Piobbichi.
E in effetti, a sentirlo parlare, sembra già chiara la narrazione - e quindi l’immaginario - che dovremmo adottare. Per lui bisognerebbe superare l’idea dello Stato-nazione e parlare di forme nuove di gestione dei territori, decentralizzati, dal basso, a partire dai beni comuni; ripensare alla società attraverso reti di solidarietà, basate sul mutuo aiuto. Bisognerebbe parlare e portare avanti lotte, boicottaggi, scioperi e manifestazioni. Ma soprattutto, spiega, “ci sarebbe bisogno di una nuova filosofia dell’umanità basata su altri valori, come la sensibilità, la cooperazione, l’ecologia, il femminismo. Gli Stati nazione oggi sono il problema dentro la nostra società. C’è bisogno di una visione molto più radicale, accompagnata da un certo tipo di pratiche sociali che ci permettano di organizzarci per resistere attraverso il mutuo aiuto, le cooperative dal basso, la solidarietà. Una volta, parlando, con un curdo mi ha detto: in Italia o lavorate per il capitale o lavorate per lo Stato. Nessuno lavora per il bene comune. Ecco credo che quella sia la strada che dovremmo percorrere”.
Forse ha ragione Piobbichi. La strada è quella di rimettere al centro i beni comuni ma per ripartire da lì, serve proprio la pratica, e ciò significa sporcarsi le mani, stare nei territori, ricucire brandelli di umanità sfilacciate e provare a mettere insieme le persone attorno a nuovi immaginari di vita, di società e di valori, non più basati sulla crescita infinita ma sull’accettazione del limite e dell’idea di essere parte integrante di un tutto. Ma per farlo serve l’immaginazione e la decolonizzazione del pensiero e del linguaggio.
Altre risorse per approfondire
Se vuoi saperne di più su capitalismo, decolonizzazione del linguaggio e beni comuni, ti consigliamo di leggere:
-Silvia Federici - Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei «commons». In questo testo, Federici collega i beni comuni alla lotta femminista e alla necessità di costruire comunità più inclusive e sostenibili.
Alla prossima!