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palestina
Maggio 27, 2024
Giustizia Sociale

Un vuoto di parole: la legittimità delle voci palestinesi passa dalla rabbia

Approfondimento di Cecilia Dalla Negra – Orient XXI

«Oggi, il mio corpo era un massacro trasmesso in TV 

abbastanza pieno di statistiche per una risposta controbilanciata. 

Ed io ho perfezionato il mio inglese e imparato le mie risoluzioni Onu

- Ma ci dia solo una storia, una storia umana. Capisce, qui non si tratta di politica. Vogliamo solo raccontare alla gente di lei e del suo popolo quindi ci racconti una storia umana. Non menzioni parole come "apartheid" e "occupazione". Capisce, qui non si tratta di politica. Deve aiutarmi in quanto giornalista ad aiutare lei a raccontare la sua storia che non è una storia politica. 

[…]

Oggi, il mio corpo era un massacro trasmesso in TV 

che doveva rientrare in frasi incisive e un numero limitato di parole 

e commuovere quanti desensibilizzati al sangue terrorista […]

Noi insegniamo la vita, signore.

Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare al resto del mondo la vita, signore». 

[“We teach life, Sir”, Rafeef Ziadeh, 2011] 


Un intero territorio ridotto in macerie. Cadaveri di bambini stretti tra le braccia di parenti disperati. Medici rapiti e torturati. Fosse comuni, ospedali assediati e poi rasi al suolo. I fatti dovrebbero parlare da soli. Ma, nell’empatia a geometria variabile occidentale, non lo fanno quasi mai. 

Perché un fatto parli, serve una voce che lo racconti. Che contestualizzi e guidi alla comprensione chi ascolta, rendendolo meritevole di attenzione. Per raccontare un massacro in Palestina trasmesso in diretta, a chi deve appartenere quella voce? Chi, su questo tema, è titolato a parlare? 

“I fatti non parlano assolutamente da soli, ma necessitano di una narrazione socialmente accettabile che li assorba, li sostenga e li faccia circolare. E la narrazione ha a che fare con la legittimità e l’autorevolezza”. Era il 1984 quando Edward Said, tra i più importanti intellettuali palestinesi, scriveva queste parole in un saggio intitolato “Permission to Narrate”. Dal massacro di Sabra e Shatila, compiuto dalle milizie cristiano-maronite contro la popolazione palestinese rifugiata in Libano con la complicità dell’esercito israeliano, erano trascorsi appena due anni. Diverse cronache di quella carneficina erano già emerse, diverse analisi dell’invasione israeliana di Beirut erano state scritte. Eppure, già allora, ciò che mancava era la voce delle persone palestinesi. 


Un vuoto di parole 

“Paradossalmente”, sosteneva Said, “non è mai stato scritto tanto sui palestinesi: sono lì, ma la loro narrazione non c’è”. Quella che evidenziava era un’assenza di parola, una rimozione: la creazione di uno spazio vuoto nel quale la voce palestinese, con il passare degli anni, sarebbe scivolata. Venendo rimossa non solo dalla Storia, ma perdendo il proprio posto nel presente e nell’enunciazione del futuro. 

Una voce che sarebbe diventata sempre più oggetto e mai soggetto del discorso dominante. Un oggetto studiato, analizzato, commentato, interpretato. Demonizzato da chi gli è nemico o persino difeso da chi gli è solidale, ma sempre e comunque silenziato da una narrazione egemonica occidentale considerata più autorevole, più credibile, l’unica vera. 

Il saggio firmato da Said, già allora apriva una riflessione che sarebbe diventata quanto mai attuale molti anni dopo. Dalla primavera del 2021, in particolare, quando attraverso la voce di Mona e Mohammed El Kurd, fratello e sorella impegnati contro l’espulsione forzata dei palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, sarebbe emerso sui media internazionali in modo dirompente e radicale il punto di vista di una nuova generazione, determinata a riappropriarsi della propria storia, e del linguaggio con cui narrarla. Grazie all’uso dei social network e alle loro capacità comunicative, Muna e Mohammed El Kurd sono riusciti a rendere chiara la lettura politica di una giovane generazione non più disponibile al compromesso, a quella pacatezza dei modi in fondo attesa, quando non pretesa, dall’audience globale. 


Una rappresentazione rassicurante

Dopo il 7 ottobre, il tema della rappresentazione dei palestinesi e del loro diritto di parola è diventato quanto mai attuale. Mobilitando la popolarità ottenuta nel 2021, è stato nuovamente Mohammed El Kurd a prendere parola, interrogando frontalmente i dispositivi narrativi utilizzati dal sistema mediatico internazionale. In un saggio pubblicato sulla rivista statunitense The Nation, dal titolo “Il diritto di parlare per se stessi”, El Kurd entra in dialettica proprio con Edward Said, rievocando le analisi elaborate dall’intellettuale in “Permission to Narrate” e situandole nel presente. 

Se Said nel 1984 definiva l’uso della categoria del “terrorismo” come “anti-narrativa”, capace cioè di annullare qualsiasi rapporto di causa-effetto, di celare le strutture di potere e la relazione di oppressione esistente tra soggetti egemoni e subalterni, El Kurd gli fa eco spiegando che “noi palestinesi sugli schermi televisivi esistiamo solo in una falsa dicotomia: possiamo essere terroristi o vittime”. Nel primo caso, ci dice, il diritto di parola è escluso: il terrorista, in quanto soggetto non-umano, non è titolato a parlare. Nel secondo, di tanto in tanto gli viene concesso un microfono. Ma a che prezzo? La sua risposta è una fotografia realistica e impietosa dei meccanismi di disumanizzazione e produzione empatica occidentali. 

“Anche le vittime devono soddisfare dei requisiti. Devono essere donne, bambini o persone anziane e malate. Devono avere passaporti statunitensi o europei. Non devono nuocere a nessuno. Non devono attaccare mai. Le loro storie devono essere tragiche, focalizzate su necessità umanitarie e mai basate su posizionamenti politici”, scrive. E anche laddove questa cornice pietista e umanitaria sia usata in modo strategico, nel tentativo di riabilitare quei soggetti posti al margine della categoria dell’umano, il risultato sarà la produzione di nuove categorie altrettanto stereotipate. Come quella della “vittima perfetta”, capace di soddisfare le aspettative di un’opinione pubblica occidentale abituata a un privilegio che non ammette deroghe, e che trova disturbante l’espressione della rabbia dei soggetti subalterni. E così, spostando l’attenzione da chi esercita l’oppressione alle forme adottate da chi la subisce per contrastarla, quella subalternità viene cristallizzata, reiterata, resa inevitabile. 

“Ci si aspetta che i palestinesi si comportino in un certo modo”, prosegue El Kurd. “Che siano miserabili, deboli, in cerca di compassione. Che siano nonviolenti. Che soffrano, ma restando gentili. Lo rifiuto con tutte le mie forze”. La costruzione rassicurante di un soggetto subalterno come “vittima perfetta” non ha risparmiato spesso neanche i movimenti solidali con la causa palestinese che, nel sostenere le rivendicazioni popolari o la resistenza all’oppressione, hanno contribuito a dettare i limiti entro i quali quella resistenza poteva darsi, le forme in cui le era lecito esprimersi, o quali fossero gli unici soggetti politici degni di considerazione, talvolta eroicizzati. 


La riappropriazione della rabbia 

Le riflessioni di Mohammed El Kurd e della generazione che rappresenta trovano riscontro in numerosi posizionamenti sviluppati a partire dalla seconda Intifada, ed emersi in particolare dopo il 7 ottobre attraverso realtà e strutture politiche giovanili, in Palestina come nelle diaspore. È il caso, tra gli altri, del think tank Al Shabaka che, da tempo, veicola analisi e letture innovative e radicali; del Palestinian Youth Movement o ancora, del collettivo Giovani Palestinesi d’Italia, che a più riprese hanno ribadito la necessità di decolonizzare posture, narrazioni e pratiche verso le soggettività palestinesi e le loro legittime rivendicazioni, restituendo voce a chi, più di chiunque altro, è titolato a parlare. Non secondo un discrimine identitario, ma posizionale: chi abita una condizione di privilegio non ha, né avrà mai, la medesima lettura di chi vive su un margine attraversato dalla violenza coloniale. 

Si tratta di elaborazioni che interrogano in modo diretto - e ormai senza sconti - gli approcci occidentali rispetto a contesti altri; che muovono dalla tragedia politica e umanitaria di Gaza, ma la travalicano. Che dalla Palestina partono, ma a noi fanno ritorno, perché chiamano in causa la capacità di leggere i processi di decolonizzazione e di fare i conti con la rabbia dei popoli oppressi. 

È stato ancora El Kurd, poche ore dopo gli eventi del 7 ottobre, a scrivere sui social network che la decolonizzazione non era una teoria, ma una pratica incarnata, un processo tutt’altro che teorico ma estremamente reale per la popolazione di Gaza, costretta in un carcere a cielo aperto per 17 anni. Quella che si stava osservando era dunque una rabbia plausibile che, intaccando tuttavia uno status quo basato sul privilegio, aveva provocato un cortocircuito. Ed è stato in quella frattura, in quello spazio rotto, che la voce palestinese ha iniziato a riaffermare la propria legittimità. 

I palestinesi, ci ricorda El Kurd, non sono umani per il fatto che qualcuno ha deciso che sia possibile accoglierli in questa categoria. “Siamo umani non perché piangiamo, ma perché proviamo rabbia e disprezzo. Perché resistiamo. Sono onestamente grato al mio disprezzo, perché mi ricorda che sono umano. Sono grato alla mia rabbia perché mi ricorda che sono capace di reagire all’ingiustizia”. 


Il diritto di parlare per se stessi 

Questa riflessione sul diritto alla narrazione ha investito, di recente, anche il mondo del giornalismo palestinese. Dopo 7 mesi di offensiva militare e ricostruzioni distorte; dopo innumerevoli appelli lanciati dal Sindacato della stampa palestinese ai colleghi occidentali, per lo più caduti nel vuoto, anche il loro posizionamento sembra cambiato. 

Come scrive sui suoi account il giornalista freelance Hossam Shabat, “il problema non è che i giornalisti occidentali non possano entrare a Gaza, ma che non diano valore a noi giornalisti palestinesi. Io e i miei colleghi ogni giorno rischiamo la vita per raccontare questo genocidio. Nessuno conosce Gaza meglio di noi. Se tenete a quanto sta accadendo qui, amplificate la nostra voce. Non abbiamo bisogno di giornalisti occidentali per raccontare le nostre storie: siamo capaci di farlo da soli”. 

A questa dichiarazione ha fatto eco quella di Youmna El Sayed, corrispondente di Al Jazeera a Gaza, che in una recente intervista al quotidiano “Il Manifesto” ha dichiarato: “In Occidente si pensa che i giornalisti palestinesi debbano necessariamente essere affiliati a qualche gruppo, e dunque non possano essere oggettivi. È ridicolo. Quando i giornalisti stranieri entrano a Gaza, lo fanno con l’aiuto di un fixer palestinese, di un traduttore palestinese; parlano con funzionari palestinesi e con la popolazione palestinese. Quelle storie però sono considerate attendibili, le nostre no”. 

Si tratta di analisi che riconducono all’interrogativo iniziale: cosa rende vero un fatto, quale voce è necessario che si esprima perché sia considerato credibile? Su quanto accade, chi ha diritto di parola? Come sottolinea sarcasticamente ancora El Kurd, “abbiamo denunciato il sistema di apartheid per anni, ma sono serviti i rapporti di Amnesty International e B’tselem perché il mondo ci credesse”. Ed è in fondo un meccanismo che capita spesso, involontariamente, di reiterare: ogni volta che gli studi sulla Nakba di Ilan Pappé sono considerati più autorevoli di quelli di Walid Khalidi; o che alla voce dissidente che arriva dal lato degli oppressori viene dato più peso di quella che si leva dal fronte degli oppressi. Una selezione certamente comprensibile, ma che appare oggi definitivamente superata, laddove le macerie di Gaza inchiodano l’Occidente alla responsabilità di non aver mobilitato il proprio privilegio perché i fatti potessero finalmente parlare da soli, i diretti interessati potessero esprimersi con voce propria. 

“Abbiamo un paese fatto di parole”, scriveva il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. “E tu parla, parla così sapremo dove avrà termine questo viaggio”. 

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