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giornalismo di comunità
Giugno 12, 2024
Giustizia Sociale

Un giornalismo di comunità è l’unico antidoto alla deriva illiberale in Italia

Approfondimento di Sara Manisera/Fada Collective

Interferenze politiche nei media, minacce legali da parte di membri del governo Meloni nei confronti di giornalisti critici del potere, una crescente concentrazione della proprietà dei media in mano ai politici e gruppi industriali-economici. E poi violenze, aggressioni e intimidazioni. Queste sono solo alcune delle questioni affrontate dal consorzio europeo Media Freedom Rapid Response (MFRR) che ha organizzato a Roma il 16-17 maggio 2024 una missione di advocacy urgente per affrontare alcune vicende sempre più preoccupanti relative alla libertà di stampa e dei media in Italia. Nessun esponente del governo di estrema destra guidato da Giorgia Meloni ha incontrato la delegazione europea, perché “tutte le richieste di incontro sono state rifiutate o ignorate”, si legge nel comunicato stampa del MFRR. 


La tendenza di ingerenze politiche, le molestie legali, l’oligopolio nel settore mediatico non sono fenomeni nuovi ma sono sempre più istituzionalizzati dal governo, normalizzati apaticamente dai cittadin3 e stanno causando un isolamento di quei giornalisti che portano avanti inchieste di interesse pubblico o che esercitano il diritto di critica. 


Basti pensare al caso dei giornalisti Nello Trocchia, Stefano Vergine e Giovanni Tizian del quotidiano Domani, indagati dalla Procura di Perugia per accesso abusivo e rivelazione di segreto, a seguito di un esposto del ministro della Difesa Guido Crosetto che ha, di fatto, chiesto ai magistrati di individuare le fonti dei giornalisti. I cronisti avevano pubblicato sul giornale i compensi percepiti da Crosetto in qualità di consulente del colosso degli armamenti Leonardo. Una notizia vera, di interesse pubblico, sul potere politico e sulle relazioni poco trasparenti con gruppi industriali. “Quello che viene contestato loro non è di aver scritto falsità o di aver diffamato qualcuno ma di aver realizzato inchieste giornalistiche con carte vere”, riassume la nota dell’Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai. Eppure i giornalisti sono stati accusati di “dossieraggio” e “spionaggio” da giornali amici del potere. 


Come spesso accade in Italia, infatti, le acque si mescolano, si getta fango per confondere, si invitano opinionisti che dicono tutto e il contrario di tutto. Così l3 cittadin3, smarrit3 in questo tempo di produzione bulimica delle informazioni e di fake news, sono sempre meno informat3.  


Al caso di Domani, si aggiungono le interferenze sempre più pressanti in Rai, come la cancellazione delle repliche estive di Report, lo stop all’intervento di Antonio Scurati sul 25 aprile nel programma “Chesarà…” di Serena Bortone, seguito da una lettera di contestazione disciplinare per il post che la giornalista aveva scritto su Facebook e che avrebbe violato la policy aziendale. 


Ma questi sono i casi più noti. Poi ci sono le minuscole storie, sconosciute ai più, di giornalisti freelance e media indipendenti sempre più esposti a minacce legali, querele, richieste di risarcimento danni, rimozione di contenuti o de-indicizzazione a sensi del diritto all’oblio. Un esempio è IrpiMedia, testata indipendente di inchiesta, con 5 cause in corso e 150.000 euro di richiesta di risarcimento danni. Oppure il caso di chi scrive, denunciata per diffamazione da Cesare Nai, sindaco di centro-destra di Abbiategrasso, per aver parlato della presenza della mafia sul territorio. E ancora, il caso di Claudio Cordova, direttore de Il Dispaccio a Reggio Calabria, con oltre 60 querele archiviate in vent’anni di lavoro e una recente condanna in primo grado per diffamazione con annessa richiesta di risarcimento danni. 


Insomma fare giornalismo di interesse pubblico in Italia è sempre più difficile. In primis, per la questione economica: gran parte dei giornalisti non ha contratti, è pagata a cottimo e le spese non sono coperte. Le inchieste pubblicate sulla carta stampata o sui media online, frutto di mesi di lavoro, sono pagate tra i 100 e i 300 euro e, quando va bene, 1000 euro. Chi lavora come giornalista indipendente e vuole realizzare un’inchiesta o un reportage, deve prima trovare il modo di finanziare il progetto e ciò significa trascorrere mesi a cercare e scrivere bandi. Di fatto, si smette di essere giornalisti per diventare project manager. 


Alla questione economica, si lega direttamente la salute mentale, tema indagato dalla giornalista Alice Facchini nel progetto “Come ti senti”. Stress, ansia, insonnia, abuso di cibo e sostanze, dipendenza da internet, attacchi di panico, burnout causati in primo luogo dall’instabilità e dalla precarietà, seguito dai compensi troppo bassi, dal fatto di rimanere sempre connessi e reperibili, e dai ritmi frenetici. Questo è ciò che è emerso nella prima indagine svolta da luglio a ottobre 2023 a cui hanno risposto 558 giornalist3. Ai disturbi legati alla salute mentale, si aggiungono le minacce, le intimidazioni e le querele. Al 15 aprile 2024, sono stati minacciati 133 giornalisti in 43 episodi, secondo i dati raccolti dall’osservatorio di Ossigeno per l’informazione che, dal 2006, monitora la situazione della stampa in Italia. Inoltre, nella classifica di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di informazione del 2024, l’Italia è scesa di 5 posizioni rispetto al 2023 e attualmente si trova al 46° posto su 180. 


Vi è poi la questione del restringimento degli spazi. Sono ormai anni che organizzazioni come FADA Collective, associazione di giornalist* indipendenti, denunciano l’assenza di spazi dove poter pubblicare lunghi reportage, documentari, inchieste di interesse pubblico che mettano al centro la giustizia sociale e ambientale, le diseguaglianze e che facciano nomi e cognomi di chi ne è responsabile. Mancano storie che possono ispirare il cambiamento e che uniscano i puntini, come spesso diciamo, dal locale al globale e viceversa. 


Questa mancanza di spazi di approfondimento spinge a pubblicare storie di interesse pubblico - dalla crisi idrica in Sicilia, all’industria degli armamenti, dai comportamenti illeciti di Eni in Iraq o in Basilicata ai fondi PNRR - su testate straniere perché in Italia ci sono pochi media-riviste-giornali-canali dove poter pubblicare certi tipi di storie, non ci sono pagamenti equi e giusti, non ci sono editori (e a volte caporedattori) disposti a pubblicare, a causa della grande interferenza di aziende, multinazionali e politici nella stampa. E non ci sono nemmeno l3 cittadin3 disposti a pagare e sostenere il giornalismo. 


Insomma, da una parte assistiamo a una bulimia informativa fatta di inutili articoli superficiali, polarizzanti e inquinanti che non informano l3 cittadin3 su questioni cruciali come la crisi climatica, la corruzione, le mafie, il cibo, il razzismo, la transizione energetica e che al tempo stesso li allontano dall’informazione. Dall’altra, viviamo un restringimento di spazi civici in cui è possibile esercitare il diritto di critica, la libertà di espressione e il diritto ad informare. I cittadin3 sono così sempre meno informati, assuefatti dalle proprie bolle e circuiti, stanchi e impotenti e, di conseguenza, meno predisposti a indignarsi, partecipare e mobilitarsi contro chi detiene e abusa del potere. 


Ne sono un esempio le recenti inchieste che vedonoindagata per falso in bilancio la ministra del turismo Daniela Santanché, o quelle in Liguria con Toti, indagato per corruzione. Dove sono la rabbia e la mobilitazione dei cittadin3? Quanto sono informati su queste vicende di interesse pubblico? Ma soprattutto come si esce da questa lunga fase storica, avviata da Berlusconi, con l’acquisizione di televisioni, giornali, case editrici private e che si protrae fino ai giorni nostri con gran parte dei gruppi editoriali in mano a una manciata di famiglie di industriali e politici? 


Pensiamo a Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann e azionista di controllo del gruppo editoriale Gedi (ovvero Repubblica, La Stampa ma anche Radio Deejay, Radio Capital) oppure a Antonio Angelucci, proprietario di tre testate (Giornale, Libero e Tempo), imprenditore della sanità privata, deputato della Lega e intenzionato ad acquisire l’agenzia di stampa AGI, oggi di proprietà dell’ENI; e ancora il gruppo RCS Media Group, per esteso Rizzoli-Corriere della Sera, amministrato da Urbano Cairo, ex collaboratore di Silvio Berlusconi in Fininvest e oggi proprietario anche di LA7. 


Insomma, questi giornali così vicini al potere come potrebbero disturbare e criticarlo? Come potrebbero pubblicare inchieste, reportage o storie che mettano in discussione il funzionamento stesso del capitalismo? 


Senza un giornalismo di qualità, in grado di disturbare il potere, criticarlo, controllarlo e orientare i cittadin3, non c’è democrazia. E andrebbe aggiunta un’altra riflessione. Senza un giornalismo di qualità e di comunità, manca la partecipazione. È necessario quindi ricostruire una comunità di giornalisti al servizio delle comunità e di cittadin3 informati e partecipi. Per farlo, però, è indispensabile tessere reti e alleanze di solidarietà tra cittadin3, giornalisti, attivisti e organizzazioni della società civile. 


L’unico antidoto alla deriva illiberale è ripartire proprio da cittadin3 informati e consapevoli perché, come scriveva il giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra nel 1985, “la criminalità, la corruzione non si battono solo con i carabinieri. Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. È allora quello che un giornalista 'giornalista' dovrebbe fare è questo: informare”. Informare in modo impegnato, accompagnando le comunità, analizzando le fratture ecologiche e sociali del nostro tempo, sentendo le ingiustizie del mondo sulla propria pelle, denunciando, diventando scomodi, illuminando le zone che nell’informazione mainstream restano buie per sviluppare davvero un giornalismo di approfondimento di interesse pubblico al servizio delle comunità. 

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