Aprile 27, 2023
Giustizia Sociale
Sport e politica, il ruolo di un campo da basket nella creazione di comunità
La voce di Anthony Chima, intervistato da Michela Grasso, SPAGHETTIPOLITICS
D: Come ti presenti?
A: «Sono Anthony Chima, cresciuto a Venezia e un po’ in giro per il mondo, adesso domiciliato a Bologna. Mi interessa molto l’antirazzismo, il community building e giocare a basket. Tutti interessi che hanno a che fare con lo stare in contatto con gli altri, e comprendere le problematiche che viviamo a livello quotidiano».
D: Tra i tuoi vari progetti, ce n’è uno in particolare che è molto interessante, ce ne vuoi parlare?
A: «Regaz dei Fava è una community di giocatori di Basket a Bologna. Siamo un misto di ragazzi e ragazze, ma non solo, anche neo pensionati e giovani professionisti, insomma, persone unite dall’amore per il basket. Il campetto dove ci troviamo è vicino alla stazione di Bologna, insieme ad altri ragazzi abbiamo deciso di dargli una forma più strutturata e riqualificarlo. Così tuteliamo non solo le persone che vengono a giocare, ma anche le esigenze dello spazio, del giardino e dei residenti del quartiere. Il campetto è un presidio attivo, frequentato da persone con background diversi, noi cerchiamo di renderlo un luogo di rivendicazione di una quotidianità che altrimenti sarebbe marginalizzata. Il campetto è frequentato all’80% da maschi, ed è diventato un luogo dove giovani uomini si trovano per confrontarsi attraverso lo sport, per comprendersi e stare bene assieme».
D: Da quanti anni esiste Regaz dei Fava?
A: «L’associazione esiste da tre anni, è nata all’inizio della pandemia. C'era un bando del Comune di Bologna per riqualificare alcuni spazi pubblici di aggregazione sportiva, e noi abbiamo portato avanti la nostra idea. Noi non volevamo solo riqualificare il campetto e andarcene ma, abbiamo voluto costruire un progetto specifico che si abbinasse alla realtà preesistente. Il campo esiste da molto tempo ed è stato vissuto dalla comunità filippina di Bologna per tanti anni. Partecipando al progetto, hanno portato un vissuto attivo che ha aiutato a richiamare altre persone a cui piace giocare a basket, e ancora oggi sono assidui frequentatori. La zona dei Fava è considerata ad alto rischio di degrado, ma questa reputazione di rischio e pericolo ha dato ancora più benzina ai ragazzi, spingendoli a dare il meglio. Quando siamo arrivati, il campetto era abbandonato a sé stesso, invece ora è frequentato quotidianamente. Il quartiere e i ragazzi avevano l’esigenza di questo spazio di aggregazione».
D: Come fa un campetto a “creare comunità”?
A: «Con la consapevolezza, e con persone capaci di comprendere il valore dello spazio. Per esempio, ai Fava vogliamo garantire un accesso meritocratico a tutti, non vogliamo allontanare chi è nuovo. Per poter giocare, bisogna fare dei tiri liberi, quando segni, ti guadagni il diritto di giocare. Vogliamo creare partecipazione e incoraggiamo chiunque a inserirsi, senza aspettare che qualcun'altro lo faccia per loro. Inoltre, ai Fava c’è una forte filosofia dell’accoglienza, questo perché tante delle persone che hanno creato questo spazio, sono persone con un background migratorio. Questo ha creato uno spirito di condivisione fondamentale per l’identitá dei Fava. Lo spazio è dedicato al ricordo di Graziella Fava, una donna morta in un attentato a Bologna. Noi abbiamo deciso di tenere questo nome per mantenere viva la sua memoria».
D: Sul vostro profilo Instagram è possibile vedere diversi video e foto dei ragazzi e ragazze dei Fava. In particolare, mi ha colpito quello di Adriana, una ragazza svizzera che racconta la sua esperienza al campetto, parlando proprio di te e del tuo impegno, vorresti parlarci brevemente di lei?
A: «Adriana è una ragazza che ha portato tanto valore ai Fava, grazie a un’attenzione e provocazione femminista. Essendo uno spazio principalmente frequentato da ragazzi, è inevitabile che ci sia un’attenzione principalmente maschile. Invece, grazie a persone come Adriana, si inserisce anche una prospettiva diversa, lei provoca i ragazzi al confronto, al pensiero. C’è stato un bellissimo scambio che sicuramente ha migliorato ancora di più lo spazio».
D: Il quartiere intorno come ha reagito? Vi hanno accolto bene o male?
A: «Direi che non avevano una scelta, anche perché siamo molto bravi come gruppo. Siamo super tranquilli. Tutti erano molto interessati, e hanno visto anche molti ragazzi che frequentano il campetto crescere nel tempo. La frequentazione dei Fava è stata un’azione guidata dal basso, dalle esigenze e dal bisogno di trovare uno spazio di aggregazione. Tanti dei ragazzi hanno un’educazione sociale e culturale diversa, avendo origini straniere, e quindi hanno valori culturali differenti. Per esempio, io in Nigeria se vedo persone più anziane di me le saluto. Se ai Fava vedo una signora che porta il proprio cane, la saluto: “buongiorno signora”. Magari può sembrare una cosa strana, perché in Italia la gente non è abituata a salutarsi senza conoscersi. Così si è creata un’aria piacevole, di condivisione. Piano piano siamo diventati anche noi abitanti del quartiere, il campetto ormai è casa nostra. Trovi persone che lo frequentano dalle due del pomeriggio fino alle undici di sera, c’è sempre un modo diverso per stare insieme, anche per coinvolgere i residenti. Quando facciamo i tornei estivi, ci facciamo prestare i tavoli per fare allestimento, poi andiamo da loro a mangiare, gli portiamo un po’ di business. Cerchiamo di coinvolgere tutti e di creare un senso di comunità».
D: Da dove nasce il desiderio di mettersi in gioco e creare la comunità dei Regaz dei Fava?
A: «Non è un qualcosa di nato senza spunti. Alla base, c’è la voglia di rivendicazione, non solo limitata agli spazi sociali, ma anche alla cultura e alla politica. Io faccio parte di quel numero sempre crescente di persone che hanno voglia di creare spazi dove esercitare il bisogno di esprimersi, dove trovare risposta alle proprie esigenze. Questa non è la mia prima community di basket, ma è sicuramente quella a cui tengo di più perché qui ho versato tantissimo mio sudore e assunto maggiori responsabilità. In tutta Italia ci sono community simili, e anche a Bologna stessa non siamo gli unici, infatti collaboriamo spesso, venendoci incontro per portare avanti un’idea comune».
D: In che modo lo sport, nel caso dei ragazzi Fava, diventa politica?
A: «Lo sport diventa politica, senza “fare politica”. Lo spazio assume un ruolo politico nel momento in cui vi partecipano agenti sociali, persone, non riconosciute dallo Stato. Uno dei nostri principali soci è un ragazzo filippino, lavora 8 ore al giorno e appena può viene al campetto. La sua presenza qui, la sua voce, sono fondamentali per i ragazzi più giovani. Stando qui, dalle 16 fino alle 22, lui fa un lavoro di assistenza sociale non retribuito, tutelando i ragazzi, diventando un mentore. Grazie alla sua presenza, tanti ragazzi stanno qui, ma dove sarebbero se non ci fosse il campetto? Forse per strada, e lì cosa farebbero? Ai Fava ci sono queste forme di tutela sociale che assumono una connotazione politica nel momento in cui chi frequenta il campetto fa un lavoro utile alla città. Noi siamo qui tutti i giorni dell’anno, 365 su 365, anche con neve, pioggia, vento. Se non fossimo qui, essendo una zona ad alto rischio di degrado, potrebbe succedere di peggio. La nostra presenza funziona, è un luogo di attivismo concreto. Noi siamo neri, filippini, giovani, studenti, neo-pensionati, persone che spesso vivono una quotidianità precaria e ai margini. Per noi è importante creare un legame con questo spazio, per questo andiamo alle assemblee comunali, parliamo di quello che facciamo per la città e per il quartiere. Non siamo semplicemente un’associazione sportiva, ma abbiamo un valore aggiunto che vogliamo condividere e portare avanti».
D: Il Comune e la politica tradizionale come vedono questo spazio?
A: «Il Comune ci incoraggia più o meno a portare avanti il progetto, ma dovrebbero fare ancora di più. Potrebbero riconoscere e retribuire il lavoro di assistenza sociale portato avanti nel campetto da tanti ragazzi. Tante persone prendono una laurea per fare questo lavoro, e poi vengono qui da noi a chiederci come fare un progetto con noi.
Spesso nelle nostre città e comunità, e anche in altri spazi che frequento, non c'è quel passaggio di conoscenza tra i più grandi e i più giovani, quel lavoro di mentoring. Ai Fava questa possibilità esiste, i più piccoli ricevono aiuto, i loro bisogni e curiosità non vengono sminuiti. Spesso la politica non ha riguardo e considerazione per progetti come questo, la politica tradizionale è assente e utilizza formule vecchie, che non rispondono alle esigenze del periodo storico in cui viviamo. Gli strumenti per avvicinarsi a noi ci sono, basterebbe parlarci per stabilire un contatto e capire i nostri bisogni».
D: Cosa ti ha spinto a restare a Bologna e in Italia a costruire un tuo progetto, e non a partire verso l’estero?
A: «Sono qui perché andarsene avrebbe voluto dire lasciare lo spazio a qualcuno che avrebbe potuto fare di peggio. Portando avanti questo progetto, mi sono reso conto di quanto fosse fattibile. Restare è un modo per riscoprire le potenzialità del proprio territorio e di quello che ci si può fare. Molto spesso le persone vanno via perché non trovano quello che vogliono, e allo stesso tempo non hanno mai avuto la possibilità o gli strumenti per creare quello che cercavano. Poi, quando hai gli strumenti, può succedere che manchino gli spazi, e tutto diventa più complicato.
Per me non c’erano dubbi, volevo rimanere in Italia e Bologna, io sapevo di poter fare quello che sto facendo adesso. Inoltre, portando avanti questo progetto da anni, so che posso portarlo anche in altri luoghi e avere un impatto simile».
D: Cosa vedi nel futuro dei Regaz dei Fava?
A: «Vogliamo consolidare quello che abbiamo avviato, senza metterci in competizione con nessuno, senza sostituire nessuno e senza neanche paragonarci a nessuno. Ciclicamente portiamo avanti iniziative, per esempio il Festival del cinema Fava in estate, quando mostriamo film legati allo sport nel campetto. Così si costruisce un altro modo di vivere lo spazio, anche per chi non gioca a basket. Vogliamo continuare a creare il più possibile con quello che la città e il quartiere offrono».