Luglio 15, 2024
Giustizia Sociale
Satnam Singh è stato ucciso dal sistema, l'unico antidoto è l'anticapitalismo
Approfondimento di Camilla Donzelli
Dopo la sua morte, di Satnam Singh si è parlato ininterrottamente. Eppure, mettendo in fila tutte le informazioni ricavabili dal febbrile flusso mediatico, quello che di lui davvero si sa è molto poco. I dettagli più brutali sono stati ripercorsi e analizzati senza sosta: il braccio tranciato e abbandonato in una cassetta di plastica, il sequestro dei telefoni per impedire che trapelasse l’accaduto, la ben consapevole – se non premeditata – omissione di soccorso da parte del padrone, il trasporto d’urgenza in ospedale e infine il decesso. Quest’ultima breve ma tragicamente decisiva parte della storia di Satnam Singh potremmo ormai recitarla tuttǝ a memoria. Di lui, però, non sappiamo nulla. Nel racconto mediatico, la sua identità è stata appiattita a due uniche variabili: nazionalità e appartenenza di classe.
Satnam Singh era un bracciante indiano, un “migrante economico”. Nell’immaginario costruito da approfondimenti, talk-show e articoli di giornale vari, la sua storia di vita comincia soltanto tre anni fa con l’arrivo in Italia. Nel mezzo, prima della cronaca nera, un vuoto: ciò che sappiamo è legato soltanto alla sua condizione di lavoratore migrante sfruttato, senza documenti e senza contratto di lavoro. Lo stesso vuoto narrativo è riscontrabile anche e soprattutto in quel pezzo di vita di Satnam Singh che precede l’approdo in Europa. Non sappiamo cosa lo definisse in quanto essere umano. Non sappiamo da dove venisse, cosa l’avesse spinto a migrare, quali fossero i suoi sogni e le sue aspirazioni, i suoi piani per il futuro.
Secondo la teorizzazione del sociologo franco-algerino Abdelmalek Sayad, la migrazione può essere descritta come una “doppia assenza” che si materializza da una parte con il vuoto fisico lasciato nel Paese di origine, e dall’altra nel contesto di approdo sotto forma di discriminazione ed esclusione. Adottando questa prospettiva, l’esperienza della migrazione assume i tratti di una vera e propria “caduta sociale”: il soggetto, privato di ogni identità preesistente, è costretto a rinegoziare da zero il suo spazio di esistenza all’interno del contesto di arrivo.
Ciò che Sayad descrive non è un fenomeno accidentale, bensì il risultato di fattori sistemici strettamente intersecati tra loro. Discriminazione ed esclusione sono infatti il prodotto diretto di un radicato approccio razzista che è a sua volta uno dei principali strumenti utilizzati dal capitalismo per crescere e prosperare. Come ricordato dalle teoriche femministe Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser nel manifesto “Femminismo per il 99%”, è proprio il concetto di superiorità razziale che nel corso dei secoli ha costituito la scusante ideologica alla depredazione e allo sfruttamento coloniali su cui il sistema capitalistico è stato eretto.
A seguito dei processi di decolonizzazione e di democratizzazione lo sfruttamento delle persone razzializzate ha assunto sfumature diverse, in certi casi percepite come meno aggressive e più politicamente corrette, ma non è mai cambiato nella sostanza: apartheid, neocolonialismo e divisione internazionale del lavoro sono dispositivi mascherati da “lavoro libero salariato” di cui il capitale si serve per aumentare i propri profitti a costo zero.
Un esempio lampante in questo senso è quello degli Stati Uniti d’America. Formalmente, la schiavitù venne abolita con l’approvazione del tredicesimo emendamento nel 1865. Nel libro “Black Women in White America” Gerda Lerner descrive così la realtà statunitense a metà del XX secolo, a distanza di oltre 70 anni dall’abolizione nominale dello schiavismo: “Ogni mattina, con la pioggia o col sole, gruppi di donne con borse di cartone o valigie a buon mercato si mettevano agli angoli delle strade del Bronx e di Brooklyn con la speranza di trovare un lavoro […]. Una volta assunte sul mercato delle schiave, le donne spesso scoprivano, dopo un giorno di lavoro durissimo, che avrebbero lavorato più di quel che era stato concordato, che erano pagate meno di quel che era stato loro promesso, che dovevano accettare vestiti invece di denaro, oltre ad essere sfruttate oltre i limiti delle resistenza umana. Solo l’urgente bisogno di denaro le faceva sottomettere a questa routine quotidiana”. Tutto questo avveniva in una fase che le storiografie ufficiali descrivono come di “boom economico”, omettendo il fatto che il benessere della classe borghese bianca altro non era che il risultato di un sistema socio-economico in cui lo sfruttamento di persone razzializzate era ritenuto legittimo, se non indispensabile.
Nel 2024, nelle campagne italiane, si replicano scene pressoché identiche. La storia si ripete, sinistramente simile anche in contesti geografici così distanti. E allora, quando ci si chiede come sia possibile che un padrone arrivi a scaricare per strada un uomo morente, abbandonando il suo arto amputato in una cassetta di plastica, basta mettere insieme tutti i fattori sistemici sopraelencati per ottenere una risposta: quell’assenza di cui parla Sayad è voluta, pianificata.
Il razzismo interiorizzato e istituzionalizzato lavorano incessantemente, producendo un’immagine monodimensionale del migrante, che viene percepito come un’entità priva di agentività e dunque meno umana. Meno umana a tal punto che, in un’intervista rilasciata ai microfoni Rai, il padrone bianco di Satnam Singh non ha esitato nel colpevolizzare il lavoratore, che avrebbe “fatto di testa sua”, definendo l’accaduto “una leggerezza costata cara a tutti quanti”. Come se Satnam Singh non fosse altro che un ingranaggio sacrificabile – e facilmente rimpiazzabile – in nome della sacralità del profitto.
In una fase così avanzata di normalizzazione dello sfruttamento di persone razzializzate, viene anche da chiedersi se e come le istituzioni possano avere un ruolo incisivo. Il caporalato è una piaga che affligge l’Italia da tempo, e nel corso degli anni la gravità del problema è diventata particolarmente evidente in alcuni bacini agricoli che raccolgono grandi comunità di lavoratorǝ migranti sfruttatǝ e silenziatǝ. Sono situazioni a più riprese denunciate da organizzazioni e sindacati, e ben note alle autorità che, anche nel succedersi di esecutivi di diverso orientamento politico, si sono sempre abbandonate alla più completa inerzia.
Non è un problema solo delle destre, ma anche di quella gran parte di sinistra che fa leva esclusivamente sul pietismo, presentando il problema come una questione puramente morale, tipicamente ascrivibile alla linea di pensiero del “salvatore bianco” che si adopera per migliorare le condizioni di vita delle minoranze etniche incapaci di reagire. Un approccio, questo, che oltre ad alimentare ulteriormente l’immagine infantilizzata e deumanizzata delle persone migranti, contribuisce ad occultare un nodo cruciale: chiedere interventi legislativi in un contesto in cui il sistema capitalistico razzista non viene messo in discussione è del tutto inutile. Richieste che si appellano al contenimento e alla regolamentazione da parte delle autorità possono anche essere accolte in una certa misura – spesso per ragioni di opportunismo politico –, ma si tratta pur sempre di concessioni dall’alto che rischiano di rimanere nominali. Perché sono istanze che, in fin dei conti, andrebbero a danneggiare le fondamenta di quel sistema economico la cui validità non può essere contestata.
Fino a quando questioni di questo tipo rimarranno confinate esclusivamente entro dilemmi di “morale” e “umanità” la lotta per il raggiungimento di libertà e uguaglianza sarà a sua volta depotenziata. Ciò che occorre è contestualizzare e politicizzare, riconoscere e dare un nome ai fattori sistemici che stanno alla radice di disuguaglianze e ingiustizie e che normalizzano lo sfruttamento su base etnica e di classe. Occorre decostruire le basi di ciò che è dato per naturale e formare alleanze trasversali fra gruppi oppressi.
Come nota Mark Fisher nel suo libro “Realismo capitalista”, siamo talmente assueffattǝ all’assetto capitalista che ci viene più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. Tuttavia, la teoria radicale ci ricorda che l’obiettivo dei movimenti di emancipazione è proprio quello di distruggere lo status quo, l’apparente “ordine naturale”, e dimostrare che ciò che viene fatto passare come inevitabile è soltanto una contingenza.