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Gennaio 28, 2025
Giustizia Sociale

Ramy Elgaml: una riflessione sul fallimento del sistema-Italia

Approfondimento di Sagia Hammoud, mediatrice interculturale, e Youssef Siher, ricercatore

Nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2024 due carabinieri uccidono Ramy Elgaml, 19 anni, nel quartiere milanese di Corvetto, a termine di un insensato inseguimento. Ramy e Fares Bouzidi vengono inseguiti da una gazzella dei carabinieri per 8 chilometri e poi speronati dalla stessa. Dalle videocamere dei carabinieri, pubblicate dal Tg3, si sentono le voci di alcuni carabinieri: “Vaffanculo, non è caduto!”, “Dai, chiudilo!”, “Merda non è caduto neanche stavolta”, “Sono caduti! … Bene!”. Ramy muore sul colpo, Fares finisce in coma.

La vicenda di Ramy e Fares, fin dai suoi primi sviluppi, è stata oggetto di una strumentalizzazione su doppio binario, ma ugualmente pericolosa, che rappresenta il fallimento del sistema-Italia nell’affrontare una questione che tocca una parte fondamentale, ma da sempre emarginata, della società. Da un lato, in linea con ciò che era quantomeno prevedibile, alcuni hanno cercato di utilizzare l’episodio per avallare una narrazione discriminatoria e razzista, gettando fuoco su divisioni sociali basate su etnia, religione e classe. Dall’altro lato però la vicenda è stata anche utilizzata da quanti si dicono fedeli al conflitto sociale come leva verso il cambiamento, senza esplicitare una visione chiara e concreta che metta in discussione le cause strutturali delle tensioni sociali in essere. Questo approccio rischia di tradursi in uno scontro fine a sé stesso, che non affronta le radici profonde delle disuguaglianze e delle fratture sociali, limitandosi quindi a esprimere un malcontento – spesso in nome di terzi – senza offrire un’effettiva proposta di soluzione.

Ciò che emerge da questa doppia strumentalizzazione, seppur su piani differenti, è il rischio che la vicenda venga ridotta a un episodio isolato e personalistico, privo di un contesto più ampio che spieghi le origini e le implicazioni di un fatto che non è un caso anomalo o inconsueto in Italia. La questione sociale italiana, infatti, è molto più complessa e radicata, e non può essere affrontata attraverso il semplice gioco di narrazioni polarizzanti, in cui più fazioni tentano di appropriarsi del monopolio della vicenda, a discapito del dolore di chi ha perso un figlio, un fratello, un amico. Per evitare che la questione si trasformi in un disordine fine a sé stesso, è fondamentale quindi analizzare i problemi strutturali che ne sono la forza motrice, tra cui il divario economico e sociale tra classe egemone e quelle subalterne, l’abbandono delle periferie, il razzismo sistemico, la profilazione razziale e l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine. Solo con un approccio che comprenda queste dinamiche più ampie sarà possibile trovare soluzioni efficaci che vadano al di là di una reazione momentanea, ma che puntino a una trasformazione profonda e duratura della società.

È importante quindi contestualizzare la morte di Ramy in un quadro più ampio: quello di un sistema-Italia in cui gli apparati securitario, politico, culturale e mediatico risultano intrisi di razzismo e discriminazione. L’uccisione di Ramy da parte dello Stato rappresenta la punta di un iceberg le cui radici affondano non solo nella gestione repressiva delle periferie, ma anche nella narrazione dominante veicolata dalla politica, dai media e da ampi settori della società civile, in un contesto generale permeato da intolleranza verso l’“altro”. Le periferie delle città si sono trasformate in luoghi di confinamento e controllo, dove la presenza delle minoranze razzializzate viene sistematicamente criminalizzata. Le forze dell’ordine si configurano come strumenti di oppressione, contribuendo alla violenza e alla marginalizzazione sociale. I media nazionali, sempre più concentrati sulla propaganda ideologica e sul conflitto di opinioni, hanno smarrito il loro ruolo fondamentale di documentare i fatti e restituire voce a chi è relegato all’invisibilità. Parallelamente, la classe politica parlamentare strumentalizza eventi e questioni sociali esclusivamente per fini elettorali, trascurando la necessità di affrontare le disuguaglianze strutturali che alimentano discriminazione e conflitto.


L’esempio della Francia e la dinamica sociale di divisione

Troppe volte abbiamo assistito all’associazione tra le periferie italiane e le banlieue francesi, al minimo accenno di proteste e rabbia sociale. Seppur il contesto italiano spinga nella direzione della segregazione e della marginalizzazione dei propri cittadini poveri e stranieri – un’esclusione non solo su base razziale, ma che si intreccia alle disuguaglianze di classe e alle dinamiche di potere, così come negli anni ‘70, a Corvetto stesso, “l’altro” era il meridionale, come il migrante –, presenta delle proprie specificità rispetto al contesto francese. Le cité, infatti, rappresentano dei “quartieri-satellite”, voluti e costruiti a partire dal secondo dopoguerra conformemente al piano di smantellamento delle bidonville e volti ad accogliere un gran numero di lavoratori e migranti poveri, fattispecie dalle ex-colonie, tramite mirate politiche di infrastrutturazione. Le periferie italiane sono invece estensioni delle città, ne rappresentano una cornice ma non sono entità fisiche separate e invalicabili. È importante inoltre considerare che l’Italia è un paese estremamente giovane in termini di migrazione e la composizione demografica della componente straniera rimarca ancora un modello diffuso, differente rispetto al modello concentrato e assimilazionista francese.

Ci sarebbe dunque da chiedersi, nonostante le differenze, quali siano gli anelli di congiunzione tra i contesti francese e italiano, considerato che il tema delle periferie non è meramente spaziale. Guardando alla vicenda della morte di Nahel Merzouk in Francia emergono analogie preoccupanti con la vicenda di Ramy. Il caso di Nahel, ucciso dalla polizia il 27 giugno 2023 in circostanze che hanno scatenato violenti proteste, non ha fatto altro che amplificare le divisioni sociali e politiche senza portare a tentativi concreti di cambiamento. In un clima di rabbia e frustrazione crescente – naturale risposta a politiche urbane scadenti, politiche migratorie restrittive, una gestione inadeguata delle politiche sociali, alla mancanza di investimenti e a un progressivo accrescimento delle disuguaglianze economiche e sociali – la richiesta di giustizia si è scontrata con una classe politica che ha strumentalizzato il conflitto per alimentare ulteriori divisioni, senza mai realmente affrontare le cause strutturali del malessere.

In Italia la dinamica sembra ripetersi, con la politica nostrana che non si distingue da quella d’oltralpe nel non essere in grado di affrontare la questione in maniera costruttiva. Questo perché lo Stato-nazione, su cui si fondano le società contemporanee, non è altro che uno strumento che consolida gerarchie sociali e disuguaglianze funzionali al capitale. Un apparato che, per costituzione, risponde alla tensione al profitto, determinando uno specifico meccanismo di collocamento, e dunque di esclusione, di chi è ritenuto meno adatto a servire la corsa al capitale. Attraverso leggi e confini, lo Stato alimenta paure e identità escludenti, preservando l’ordine necessario al dominio del capitale. La sua incapacità di risolvere le questioni sociali non è quindi casuale, anzi. Essa è parte integrante di un sistema che si regge su disuguaglianza e discriminazione.

Il sistema securitario italiano, come quello francese, è infatti profondamente segnato da un approccio che criminalizza la povertà e la marginalità, specialmente nei confronti delle comunità razzializzate. Le forze dell’ordine sono chiamate quindi a gestire le periferie come “zone di conflitto”, sulla scia di un razzismo strutturale, tipico dello Stato-nazione, che si manifesta in un trattamento discriminatorio e violento nei confronti di chi è già emarginato dalla società:le periferie sono dunque vissute come un “altro” da parte del potere egemone, un “altro” che va disciplinato e controllato. Entrambi i sistemi, quello italiano e quello francese, si dimostrano quindi incapaci di fare i conti con le cause profonde delle disuguaglianze sociali al proprio interno, che trovano espressione nelle questioni di periferia, ma riguardano l’intera struttura sociale ed economica dei due paesi, ovvero lo Stato-nazione al servizio del capitale. 


Il ruolo della classe politica: strumentalizzazione e conflitti crescenti

L’approccio securitario e punitivo che ha caratterizzato le politiche italiane di ogni esecutivo negli ultimi 25 anni ha avuto un impatto profondo e duraturo sulle dinamiche sociali e culturali del paese. A partire dalla legge Bossi-Fini del 2002, fino all’Accordo di Integrazione del 2009 e al “Decreto Sicurezza” (DL 113/2018), queste politiche hanno contribuito a creare un clima di diffidenza nei confronti delle comunità razzializzate. Le normative, spesso giustificate in nome della sicurezza nazionale, hanno in realtà alimentato una retorica discriminatoria, con una conseguente crescente stigmatizzazione delle comunità, che si sono trovate a dover affrontare non solo difficoltà economiche e sociali, ma anche un ambiente ostile e discriminatorio. In questo contesto di applicazione, è stato facile per la classe politica spingere per l’adozione di misure sempre più severe, in risposta alla morte di Ramy.

La classe politica italiana ha quindi dimostrato ancora una volta di non saper gestire le questioni sociali e politiche legate alle minoranze. Anziché promuovere un dialogo e una soluzione, molti esponenti politici sfruttano le tensioni sociali per avanzare la propria agenda politica. Lo vediamo soprattutto con il governo Meloni, che sta strumentalizzando le vicende di piazza per accelerare l’approvazione del DDL Sicurezza (ex DDL 1660) proprio in risposta alle manifestazioni di piazza, così come con l’implementazione delle cosiddette “zone rosse” in diverse città italiane – misura che tocca anche il quartiere del Corvetto – e l’ampliamento dell’applicazione dei DASPO urbani (anche nei confronti di chi manifesta dissenso), ovvero provvedimenti preventivi che vietano ad una persona, a discrezione del sindaco o del prefetto, di accedere a determinati luoghi pubblici (o ad un comune) per un certo periodo di tempo, che può arrivare fino a 2 anni.

“Io mi schiero sempre dalla parte delle forze dell’ordine”, è stato il commento dell’europarlamentare della Lega ed ex generale Roberto Vannacci dopo aver visto il video dell’inseguimento reso pubblico l’8 gennaio scorso. La consigliera regionale del Partito Democratico Carmela Rozza si è invece messa in prima fila con un intervento in piazza proprio a Corvetto durante uno dei primi presidi per Ramy per farsi becera pubblicità e, come le contestava qualcuno dei presenti, “campagna elettorale” per il suo partito. Il tutto senza dare alcun tipo di analisi della questione o una soluzione alla stessa, utilizzando invece il palco mediatico per elargire il solito assistenzialismo paternalista. 

La morte di un giovane appartenente a una minoranza razziale ha quindi rivelato l’incapacità della politica di rispondere a una legittima richiesta di giustizia e uguaglianza privilegiando da una parte la repressione e il controllo e, dall’altra, una demagogia pregna di vuote promesse. Il risultato è una polarizzazione delle opinioni pubbliche in cui chi si oppone al sistema, con la prospettiva di un cambiamento reale dello status quo, viene etichettato come un “nemico da combattere”, mentre la richiesta di giustizia e verità viene strumentalizzata, da entrambi gli schieramenti politici, per fini elettorali.


La responsabilità della società civile: oltre la protezione, un cambiamento strutturale

La vicenda di Ramy ha suscitato un ampio dibattito nell’opinione pubblica, generando una divisione netta tra chi lo ha voluto dipingere come un “delinquente” sviscerando ipotetici precedenti penali, il ritrovamento di un’arma, droga, 2.000 euro in contanti e un collier d’oro a bordo dello scooter, e chi ha voluto dipingerlo come un “ragazzo d’oro”, figlio di genitori nordafricani ben integrati nella società italiana, con un forte spirito di sacrificio e un impegno costante nel lavoro. Tuttavia, risulta inevitabile prendere distanza da entrambe le narrazioni e vedere nella vicenda di Ramy, al di là della sua persona e dei suoi trascorsi, questioni ben più ampie e complesse. Ramy, come molti altri giovani razzializzati, aveva motivo di temere un controllo da parte della polizia: in un contesto in cui gli abusi di potere da parte delle forze dell’ordine non sono rari e la profilazione razziale è una realtà tristemente documentata, la paura di essere fermato, perquisito e addirittura maltrattato, non per ciò che si è commesso ma per ciò che si è, è un’esperienza quotidiana per molte persone.

È fondamentale evidenziare inoltre che il dibattito su questi temi non dovrebbe essere confinato alla mera difesa dei più deboli. Le realtà politiche e sociali che si impegnano nella lotta contro il razzismo e le disuguaglianze non devono cadere nel tranello di una politica che si nutre della divisione. La riflessione sul trattamento delle comunità razzializzate da parte della società civile si deve configurare e articolare in una critica profonda alle dinamiche e strutture di potere. La concezione di “salvare” le comunità razzializzate è intrinsecamente paternalista e affonda le sue radici in una logica coloniale per cui i popoli “altri” sono incapaci di governare il proprio destino. Questa visione continua ad alimentare una narrazione che riduce le comunità razzializzate a oggetti su cui intervenire e da assistere, anziché riconoscerne il ruolo di soggetti attivi del cambiamento.

Non si tratta, dunque, di “salvare” qualcuno, ma di valorizzare la resistenza, le conoscenze e le pratiche che le comunità razzializzate hanno sviluppato e portato avanti nonostante molteplici forme di oppressione. Chi fa propria la lotta al razzismo e per i diritti, deve riconoscere e mettere in discussione il proprio privilegio, realizzando che la lotta non può essere per il bene di qualcuno, ma una lotta per il bene comune, quindi per il diritto alla casa, allo studio, ai servizi pubblici; una lotta collettiva in cui tutte le persone riconoscono le proprie responsabilità e si impegnano insieme per costruire una società giusta e coesa che non riproponga e reiteri logiche di esclusione e violenza.

Il caso di Ramy Elgaml ci costringe a confrontarci con un sistema che non ha saputo e che non vuole affrontare le sue contraddizioni interne. La sfida, dunque, è duplice: da una parte, è necessario un ripensamento radicale del nostro sistema securitario, che non può più essere basato sulla violenza e sull’impunità, ma deve essere fondato sulla giustizia, la trasparenza e il rispetto dei diritti umani. Dall’altra, è necessario che la società civile e la politica facciano un passo indietro, smettendo di strumentalizzare la sofferenza e lavorando insieme per costruire un futuro di uguaglianza e giustizia. Il rischio è che, come in Francia, l’indignazione si tramuti in divisioni senza fine, mentre le vere questioni restano irrisolte. Il caso di Ramy Elgaml non è un’eccezione, ma l’ennesima tragedia annunciata che getta una luce impietosa su un sistema-Italia incapace di garantire dignità ai subalterni. È nostro imperativo morale e politico trasformare questa vergogna collettiva in un punto di svolta: che la morte di Ramy sia l’ultima.

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