Giugno 17, 2024
Giustizia Sociale
Perché la Palestina è una questione ecologica
Approfondimento di Thomas Aureliani, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano
Tra la marea di immagini strazianti che sono giunte da Gaza vi è un video che forse è sfuggito alla maggior parte delle persone che seguono quotidianamente le notizie dalla Striscia: cecchini dell’IDF colpiscono con diversi colpi di fucile tre pecore che stanno attraversando una strada di Khan Younis. Tra le macerie e i detriti dei bombardamenti, gli animali si accasciano a terra, esanimi, uno dopo l’altro. Perché l’esercito israeliano avrebbe dovuto colpire quelle pecore?
La sequenza di immagini, più di molte parole, ben rappresenta le implicazioni ecologiche della guerra d’Israele a Gaza e del colonialismo d’insediamento in Palestina. Ogni forma di vita riconducibile all’indigeno rappresenta potenzialmente un nemico, una risorsa da sottrarre, uno spazio da depredare, una memoria da cancellare. Il non-umano e l’ambiente sono strumenti di riproduzione del progetto coloniale sionista in Palestina, così come lo sono stati in altri contesti lontani nel tempo o nello spazio.
La colonizzazione, le guerre, gli scontri e la resistenza in Palestina possono essere infatti concepiti come un unico e perdurante conflitto di distribuzione ecologica perché si materializza attraverso l’espropriazione della terra, dell’acqua e delle altre risorse naturali e perché si basa anche sulla distribuzione diseguale di benefici, rischi e danni ambientali tra cittadini israeliani (coloni compresi) e palestinesi. Per tali motivi è stato introdotto il concetto di apartheid ecologico. Il sistema di segregazione è alimentato infatti anche dall’insieme di crimini, danni e disuguaglianze ambientali organizzati a tavolino dal sionismo: la confisca delle terre e il land grabbing; la sostituzione delle colture locali con vegetazione d’importazione, a partire dalle varietà tradizionali di semi; l’appropriazione violenta delle risorse naturali; la costruzione di infrastrutture impattanti ed escludenti come i 1,500 chilometri di strade che collegano solo le colonie israeliane; la costruzione di un muro di separazione di 760 chilometri che impatta sugli ecosistemi naturali causando perdita di biodiversità (è stato eretto a danno di circa 1,5 milioni di alberi abbattuti); il trasferimento di aziende inquinanti e smaltimento di rifiuti israeliani nei territori palestinesi; la confisca di animali di proprietà palestinese come cammelli, asini, capre e pecore; la distruzione sistematica di uliveti millenari. E la lista potrebbe continuare.
Il conflitto ecologico presuppone però la presenza di una qualche forma di opposizione alla riduzione quantitativa e/o qualitativa delle risorse ambientali disponibili. Ecco, dunque, che la resistenza palestinese alla colonizzazione d’insediamento, nelle sue diverse configurazioni e nelle sue esperienze più disparate, può essere intesa come una forma di lotta per la giustizia ambientale, ecologica e tra le specie.
Ma come si è strutturato il sistema di apartheid ecologico e quali sono state le sue conseguenze? Mediante una violenza diretta ed eclatante – che si esprime, ad esempio, con le guerre e gli impatti ambientali che ne derivano – e quella che il professore Rob Nixon ha chiamato violenza lenta, cioè la violenza graduale dell’inquinamento ambientale, silente ed esponenziale ma spesso invisibile. Quest’ultima è una forma di violenza dalla distruttività ritardata, logorante e normalmente non percepita come tale, e che si disvela attraverso lo sversamento di rifiuti tossici, il disboscamento, l’estrattivismo o la sottrazione prolungata di risorse vitali. Entrambe le forme di violenza si sono manifestate durante la storia recente della Palestina.
Colonialismo e impatti ambientali
Dopo la nascita dello stato d’Israele nel 1948 e la Nakba palestinese – cioè l’espulsione di circa 750 mila palestinesi provenienti da 500 villaggi – il Fondo Nazionale Ebraico (FNE) avviò un programma di forestazione e di sostituzione della flora e delle colture agricole autoctone (olive, fichi, mandorle) con i pini e cipressi europei, poco adatti al clima locale, molto sensibili agli incendi e nemici della biodiversità dato che le loro foglie acide impediscono la crescita di altre piante. Come dimostra lo storico Pappé, fu escogitato una sorta di greenwashing in salsa coloniale: questi polmoni verdi, trionfo israeliano dell’ecologismo, sono stati localizzati appositamente sugli antichi villaggi palestinesi distrutti e sfollati, non solo eliminando la flora e le produzioni locali ma anche la memoria di quelle comunità. Operazione parallela alla sostituzione dei nomi arabi di villaggi, valli, parchi, sorgenti, corsi d’acqua e montagne con quelli ebraici e portato avanti dal “Comitato per i nomi”, una sottodivisione del FNE. In Israele la coscienza ecologica, l’ideologia sionista e la cancellazione del passato spesso sono andate a braccetto. La pulizia etnica si è materializzata anche in una sorta di pulizia ecologica che continua ancora oggi. Le ONG Pengon e Friends of the Earth Palestine stimano che negli ultimi 20 anni più di mezzo milione di alberi siano stati abbattuti dai coloni o dall’esercito israeliano, la maggior parte ulivi.
Un’interessante e preziosa modalità di resistenza allo sterminio della flora e delle colture locali, così come all’introduzione di prodotti di sintesi chimica in agricoltura, è stata sviluppata da diverse realtà associative e da persone comuni che cercano di preservare i semi ancestrali, ad esempio aprendo biblioteche dove questi ultimi vengono custoditi e presi in prestito dagli agricoltori. Ne sono un esempio la Palestine Heirloom Seed Library (PHSL), ovvero la biblioteca dei semi autoctoni della Palestina, e l’Union of Agricultural Workers Committee (UAWC) che ha istituito una banca dei semi nativi palestinesi.
L’accaparramento delle terre e l’attacco alle fonti di sussistenza palestinesi sono stati forse i principali strumenti utilizzati dal sionismo. Centimetro per centimetro, il colonialismo d’insediamento mira ad alterare le condizioni ecologiche dello spazio, il paesaggio e ad alimentare quella che viene definita “territorialità”, cioè la capacità di influire o controllare le persone, i fenomeni e le relazioni delimitando ed esercitando un controllo sopra un’area geografica. Il controllo e la rimodulazione dello spazio, dell’ambiente fisico e umano, ma anche dell’ambiente costruito è fondamentale per la strategia di dominio d’Israele. L’architetto israeliano Eyal Weizman parla a questo riguardo di “spaziocidio” facendo riferimento all’architettura come strumento di potere dello stato ebraico sulla popolazione indigena palestinese.
Oggi, il 65% delle terre in Cisgiordania è controllato dall’occupazione, con i 300 insediamenti illegali abitati da circa 700 mila coloni ebrei perfettamente collegati da strade ad uso esclusivo, mentre i palestinesi fanno i conti con le pesantissime restrizioni alla mobilità: l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, OCHA) ha documentato 645 ostacoli fisici alla circolazione in Cisgiordania, compresa Gerusalemme, tra cui posti di blocco costantemente presidiati dalle forze israeliane o da società di sicurezza private, blocchi stradali, barriere e muri. Nella Striscia di Gaza, il 17% del totale della superficie (il 35% delle sue terre coltivabili e l’85% delle acque marine) rientra nelle aree ad accesso limitato “ARA” imposte da Israele, dove agricoltori, pastori e pescatori non possono svolgere le proprie attività. I danni economici e sociali sono immensi, se si pensa solo al fatto che l’applicazione dell’ARA ha portato a un calo del 65% del numero di pescatori negli ultimi decenni colpendo direttamente oltre 23 mila nuclei familiari palestinesi. Il genocidio in corso sta evidentemente facendo il resto.
Un approfondito studio di Forensic Architecture, gruppo interdisciplinare di ricerca fondato all’Università Goldsmiths di Londra proprio da Weizman, evidenzia la portata della distruzione ambientale della guerra. Circa il 38-48% della copertura arborea e dei terreni agricoli sono distrutti o inutilizzabili. Prima del 7 ottobre, le fattorie e i frutteti coprivano circa 170 km quadrati (65 miglia quadrate), ovvero il 47% della superficie totale della Striscia, mentre a fine febbraio 2024 erano andati distrutti più di 65 km quadrati, ovvero il 38% di quella terra. A fronte della presenza di circa 7.500 serre, fonte di sussistenza imprescindibile per i palestinesi, risulta completamente distrutto circa il 23% del totale. La distruzione dell’agricoltura locale non è una conseguenza involontaria della guerra, ma una precisa strategia di annichilimento della popolazione di Gaza che si pone in linea di continuità con azioni come lo spargimento di erbicidi sulle colture e sugli attacchi diretti agli agricoltori.
La progressiva distruzione delle colture locali e l’espropriazione delle terre hanno viaggiato di pari passo, specialmente dall’occupazione del 1967, con la disparità nell’accesso alle risorse naturali e al loro saccheggio. L’acqua in particolare costituisce una continua fonte di tensioni, frustrazione e disagio per la popolazione palestinese: si stima che circa l’85% delle risorse idriche della Cisgiordania sia controllato da Israele. La diseguaglianza nell’accesso è stata istituzionalizzata dagli accordi di Oslo del 1995. L'accordo, tuttora in vigore anche se originariamente concepito come un accordo quinquennale, prevede che l'80% dell'acqua della Cisgiordania pompata dalla falda acquifera sia destinata all'uso israeliano e il restante 20% all'uso palestinese. Oggi tale ripartizione risulta ancor di più anacronistica e diseguale: non tiene infatti conto dell’incremento della popolazione palestinese in Cisgiordania di circa il 75% dall’anno dell’accordo. Inoltre, i palestinesi estraggono meno acqua di quanto specificato nell’accordo non solo per varie difficoltà tecniche ma anche e soprattutto per gli ostacoli posti da Israele e dai coloni. Ad esempio, solo tra il 2008 e il 2022 sono state demolite o confiscate circa 950 tra cisterne, pozzi e vasche di raccolta dell’acqua. Queste condizioni costringono l’Autorità palestinese ad acquistare grandi quantitativi di acqua direttamente da Makerot (l’azienda idrica nazionale israeliana) a prezzi elevati.
Infrastrutture di segregazione
A Gaza la situazione è ancor più tragica, e lo era anche prima del conflitto in corso che ha devastato il già fragile sistema idrico della Striscia. Il blocco imposto da Israele dal 2007 a materiali considerati “dual use”, come quelli da costruzione, non ha consentito la riparazione delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza pesantemente danneggiate dai bombardamenti israeliani delle guerre precedenti (2008-2009; 2014). Inoltre, circa il 97% dell’acqua della Striscia, derivante direttamente dalla falda costiera, è inadatta al consumo umano perché inquinata. L’acqua contaminata causa il 26% di tutte le malattie a Gaza ed è una delle principali cause di morte infantile. La disuguaglianza si fa ancor più marcata osservando i consumi e la disponibilità d’acqua pro-capite giornaliera. Nei Territori palestinesi occupati è di 86,3 litri al giorno: 89 in Cisgiordania e 82,7 nella Striscia di Gaza (dati del 2021). A Gaza, tenendo conto dell'aumento della popolazione e calcolando le quantità di acqua adatte all'uso umano, la quota pro capite di acqua dolce si riduce a soli 21,3 litri al giorno (lo standard minimo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è di 100 litri giornalieri).
Al contrario, il cittadino israeliano ha invece a disposizione circa 300 litri d’acqua al giorno (circa tre volte di più rispetto a un palestinese) mentre un colono dispone di una quantità d’acqua circa 7 volte superiore. Pur abitando a pochi chilometri di distanza, le disparità di accesso a una risorsa primaria come l’acqua sono palesi e alimentano il sistema di apartheid ecologico, quest’ultimo sostenuto a sua volta da un’asimmetrica distribuzione dei costi e dei danni ambientali.
Riguardo l’appropriazione di risorse energetiche, nel Mediterraneo orientale e a largo di Gaza si trova una grande area di esplorazione di gas che in parte apparterrebbe alla Palestina, e su cui Israele si è invece arrogato il diritto di deciderne le sorti attraverso la concessione a due gruppi di imprese, tra cui figura l’italiana ENI. Licenza ottenuta nelle prime settimane dell’attacco israeliano alla Striscia, a fine ottobre 2023. Ben il 62% delle zone marittime d’esplorazione assegnate ad ENI sono palestinesi, ma le royalties saranno pagate ad Israele qualora si concretizzasse l’operazione. Estrazione e sottrazione, esclusione, guerra e rapina spesso vanno nella stessa direzione anche a livello geopolitico.
Un’altra questione particolarmente evidente che amplifica la forbice delle disuguaglianze è l’inquinamento ambientale provocato dalle aziende e dallo smaltimento dei rifiuti. Dagli anni ’80, diverse fabbriche israeliane si sono trasferite nei Territori palestinesi occupati, anche grazie agli incentivi fiscali promossi dallo stato ebraico e alla legislazione ambientale meno restrittiva. Un caso storico, insieme a molti altri, è quello della Geshuri, un’azienda agrochimica israeliana che produce pesticidi e fertilizzanti. L'azienda aveva originariamente sede nella città costiera israeliana di Netanyana, ma fu chiusa per ordine del tribunale nel 1982 dopo che i residenti si lamentarono a causa delle emissioni tossiche dei suoi impianti e fu trasferita in un terreno, confiscato allo scopo, alla periferia della città palestinese di Tulkarem, nel nord-est della Cisgiordania. Studi epidemiologici ed etnografici hanno evidenziato che i residenti palestinesi di Tulkarem presentano alti tassi di incidenza di malattie come il cancro, infezioni agli occhi e anomalie respiratorie a causa dell’aria irrespirabile, dell’avvelenamento delle falde e dei terreni circostanti e dello scarico di rifiuti tossici.
Nei Territori palestinesi vengono infatti scaricati rifiuti di ogni genere provenienti da Israele e dalle colonie in violazione del diritto internazionale. Fanghi di depurazione, rifiuti medici, oli esausti, solventi, metalli, rifiuti elettronici e batterie finiscono al di là della green line: la Cisgiordania è diventata una vera e propria zona di sacrificio, la pattumiera di Israele. Secondo la ONG israeliana B’Tselem vi sono almeno 15 impianti di trattamento dei rifiuti israeliani installati in Cisgiordania, sei dei quali processano rifiuti pericolosi altamente inquinanti, mentre esistono almeno 70 siti di smaltimento abusivi di rifiuti. Questi ultimi sono utilizzati anche da alcuni comuni sotto il controllo palestinese, le cui discariche (spesso costrette a smaltire anche i rifiuti delle colonie) non riescono più a contenere gli scarti prodotti. A Gaza la situazione rifiuti è precipitata a partire dall’operazione Iron Swords avviata da Israele dopo il 7 ottobre 2023. Se ne sono accumulate circa 70 mila tonnellate, con la presenza di circa 60 discariche informali e 100.000 metri cubi di liquami al giorno riversati in mare. Senza contare i 37 milioni di tonnellate di detriti, alcuni potenzialmente pericolosi, provocati dalle bombe: l’ONU stima che ci vorranno 14 anni per rimuoverli. Per non parlare delle conseguenze climatiche delle circa 70 mila tonnellate di bombe sganciate da Israele sulla Striscia dal 7 ottobre ad oggi: le emissioni generate nei primi 120 giorni sono state superiori a quelle emesse annualmente dalle 26 delle nazioni più vulnerabili al clima del mondo.
Un territorio sacrificabile dal sistema di oppressione neocoloniale
La violenza lenta dell’inquinamento e della sottrazione delle risorse opera, come si è visto, in sintonia con la violenza diretta e brutale delle guerre.La Palestina è dunque una pressante ed allarmante questione ecologica. È la rappresentazione in scala ridotta delle diseguaglianze ambientali presenti a livello sia locale che globale, un contesto in cui la delocalizzazione dei rischi e dei danni ambientali (ma anche sanitari, socioeconomici e politici) verso territori considerati sacrificabili diviene una strategia di dominazione e perpetuazione di un sistema di oppressione neocoloniale e neoliberale basato sul saccheggio delle risorse.
In riferimento al genocidio in corso Forensic Architecture parla di “ecocidio” dato che si tratta di azioni deliberate che stanno comportando danni diffusi e a lungo termine all’ambiente naturale. Anche se non è entrato ancora nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale come crimine indipendente, le condotte d’Israele contro l’ambiente a Gaza potrebbero comunque rientrare nella fattispecie del crimine di guerra, dato che costituisce crimine di guerra “lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza […] danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale”.
A parte ciò che sta avvenendo dal 7 ottobre, l’intera vicenda della Palestina dovrebbe essere reinterpretata attraverso l’utilizzo di questo concetto, data la profondità dell’insieme dei danni e la precisa volontà dei perpetratori nell’infliggerli. L’ecocidio dovrebbe dunque comprendere l’insieme di tutte le pratiche criminali che da decenni distruggono e danneggiano in maniera diffusa, grave, sistematica e soprattutto intenzionale l’ecosistema e l’ambiente naturale in Palestina. Le prove purtroppo ci sono e sono moltissime.