Aprile 13, 2023
Giustizia Sociale
Perché dovremmo politicizzare il tempo
Approfondimento di Alessandro Sahebi
Nemmeno il tempo di pensare al tempo. Il lavoratore moderno si trascina sul luogo di lavoro per la maggior parte dei giorni della sua settimana in modo automatico: un caffè lungo da asporto, cuffie nelle orecchie e la testa piena di traguardi che, anche se saranno raggiunti, non saranno comunque mai abbastanza per la fame bulimica di chi lo comanda. Un giorno libero a settimana, due se è fortunato, da riempire con le attività ordinarie di una vita normale - come fare la spesa in un grosso supermercato o fare la fila in posta - o da trasformare in attività ad alta intensità adrenalinica, come una gita fuori porta o l’attività sportiva, in un vano tentativo di dare colore ad una vita che di colore ne ha veramente poco. Il tutto col sorriso in bocca, gli abiti stirati e un’immagine pubblica ottimista da sbattere in pasto ai social network. Ogni giorno consuma, ogni anno va in vacanza, ogni lustro è chiamato a votare e in media intorno agli ottant’anni muore. Passa il tempo ad ammazzare il poco tempo che ha, finché il tempo non ammazza lui. Il tempo non lo politicizza, non lo riconosce come un diritto, non riesce a detestare chi glielo sottrae ogni giorno. Anzi, spesso lo ringrazia.
Perché lavoriamo tutto il giorno?
Mentre nel mondo si moltiplicano gli esperimenti di riduzione dell’orario di lavoro, l’Italia si colloca ai vertici della classifica dei Paesi europei dove si lavora maggiormente (1). Un confronto serio, da un punto di vista politico, semplicemente non c’è. Gli interessi in gioco sono alti, oltre ad esserci numerosi meccanismi narrativi che legittimano e promuovono una forte etica del lavoro.
Perché questo accade? Principalmente per una mera questione quantitativa: chi detiene i processi produttivi ha tutto l’interesse nel pagare il minimo necessario il lavoratore costringendolo per quanto più tempo possibile nella sua postazione. Lo scopo di questa pratica è alla luce del sole: incrementare i profitti da questo generati e distribuirli in bonus alla dirigenza o agli azionisti.
La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici non vengono dunque retribuiti per il valore che hanno prodotto con le loro opere, bensì sono costretti ad accettare le condizioni che vengono loro imposte con il ricatto della disoccupazione e del licenziamento. Certo, ci sono anche coloro che accettano di dedicare alla propria mansione tutto il giorno perché si convincono che lavorare molto sia esercizio di virtù. Nella nostra società infatti chi lavora non è chiamato solo ad un impegno produttivo ma anche ad un vero e proprio sforzo emotivo personale, che spesso elogiamo come sacrificio. Affermazioni che probabilmente trovano il plauso della maggior parte di chi sta leggendo, ma che inevitabilmente si scontrano con il realismo delle nostre convinzioni: come si può lavorare di meno? In concreto, senza troppi fronzoli.
Il parassita delle nostre esistenze
Siamo seduti su un’immensa ricchezza, che incrementa, sufficiente per garantire a tutti una vita dignitosa e slegata dai ritmi infernali del sistema produttivo in cui siamo immersi. Il mito della crescita senza freno trasforma il tempo in un bene prezioso e la capacità delle élite di intercettare questa ricchezza rende le risorse a noi assegnate scarse. Bisogna lavorare di più, formarsi con più frequenza, aggiornarsi ogni giorno. E in attesa che il capitale inventi la pillola per rendere proficue quelle fastidiose otto ore di sonno che la crudele natura ci ha imposto per vivere in salute, nemmeno le restanti sedici sembrano abbastanza.
Il lavoro moderno è un parassita delle nostre esistenze che finisce per snaturarci: impegnare gli individui per tutto il giorno in un’attività significa infatti limitarli nelle dimensioni più importanti della loro vita.
Innanzitutto agli individui non è permesso dedicare tempo alle attività improduttive: la creatività, che ci rende vivi e ci caratterizza come specie, è assoggettata alle metriche del profitto, spremuta per denaro. La socialità si riduce al minimo: più passano gli anni e più siamo amici dei nostri colleghi.
Le passioni, hobby se siamo fortunati, un flebile ricordo nel peggiore dei casi.
L’aspetto che più ci caratterizza, la natura politica delle nostre esistenze, viene messo totalmente da parte. Con la testa bassa, viviamo le nostre esistenze individuali senza porci domande sul nostro ruolo in una collettività, senza porci la domanda che attanaglia la nostra specie probabilmente sin dalla notte dei tempi: che direzione stiamo prendendo? Come tornare, in modo genuino, a fare politica?
Diritto all’ozio politico, la madre di tutte le battaglie
Ci stiamo spoliticizzando a causa della mancanza di tempo? L’accesso al tempo determina la nostra partecipazione alla vita collettiva: se non abbiamo tempo non abbiamo risorse per informarci, non possiamo incontrarci con gli altri, non riusciamo ad organizzarci e ad appassionarci.
Tutti i diritti che abbiamo sono sotto attacco se ci viene sottratto il tempo che potremmo dedicare all’ozio politico. Ozio politico non è attivismo, né mobilitazione, né candidarsi al Parlamento: non tutti siamo portati per questo, non immediatamente. L’ozio politico è ciò che accade prima di diventare agente politico attivo e che può essere goduto a pieno solo quando le nostre attività ordinarie non ci schiacciano: leggere un programma, chiacchierare con uno sconosciuto informandosi, partecipare ad un evento pubblico. Ozio politico è la possibilità di accedere gradualmente a noi stessi in una veste nuova, riscoprire l’essere cittadino, conoscerci in quanto animali sociali. Riprendere spazio per pensarsi collettività. Ozio politico è anche una conversazione di qualche ora con un’amica, di fronte ad un caffè o al parco, senza il ricatto mosso dal senso di colpa per aver perso tempo in attività non produttive o a bassa intensità adrenalinica. Non ci mancano i mezzi per arrivare alle informazioni, ci mancano le risorse mentali e la concentrazione per raccoglierle e farle fermentare, con calma e con tempo, negli spazi materiali e immateriali che solo l’ozio politico può darci.
Resta una contraddizione apparentemente insanabile: per lottare contro la scarsità di tempo, abbiamo bisogno di tempo che non abbiamo. Un circolo vizioso introdotto dal talento perverso del capitale, come lo definisce il filosofo Mark Fisher (2), che è un problema drammaticamente reale.
La penuria di tempo deve essere politicizzata, deve diventare tremendamente scandalosa e posta in cima ai programmi dei partiti. E non solo.
La mancanza di tempo non è solamente una condizione impersonale e intrinseca alla società, è il bottino ingiusto della predazione sistematica e quotidiana operata dalla classe dei dominatori sugli ultimi. È il padrone di casa che ti chiede un affitto folle (costringendoti a lavorare più di quanto vorresti), è il datore di lavoro che non si accontenta del tuo sforzo produttivo, è la mercantilizzazione di ogni forma di svago che impone il pagamento una subscription per usufruire di qualsiasi prodotto creativo. Parlare di tempo senza evidenziare la causa della sua mancanza è rifiuto del conflitto utile a sollevare qualche like e vendere qualche libro. Ma non è mai parte di un processo di emancipazione sociale. Chi ti toglie il tempo è il responsabile primo della spoliticizzazione. I diritti negati si riaffermano solo attraverso le battaglie. Quella sul tempo, scandalosamente lontana dalle prospettive di molti partiti, è paradossalmente una delle più importanti da combattere. Se non, per usare un termine in voga un tempo, la madre di tutte le battaglie. Cominciamo dall’Articolo 1 della Costituzione, rigettiamo il lavoro come valore, è uno strumento tempicida.
Rifondiamo la Repubblica, rifondiamola sull’ozio.
(1) Dai dati si evince che tra gli occupati a tempo pieno gli italiani sono coloro che lavorano di più, oltretutto a fronte di una bassa produttività e salari in regressione.
(2) In Spettri della mia vita edito da Minimumfax (M. Fisher)