Aprile 23, 2025
Giustizia Sociale
Oltre le mappe di potere: ripensare il conflitto e la solidarietà
Approfondimento di Dalia Ismail
Il dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina è stato rigido fin da subito, incanalandosi in una narrazione binaria che ricorda, per struttura e logiche, quella osservata durante il conflitto siriano.
Da un lato, l'Ucraina è celebrata come baluardo dell’Occidente liberale contro l’imperialismo russo; dall’altro, una parte del fronte anti-imperialista tende a ridurre il conflitto a una semplice espressione della guerra per procura della NATO contro la Russia, negando di fatto qualsiasi agency al popolo ucraino.
In questo clima polarizzato, sembra diventato sempre più difficile esprimere una solidarietà umana verso chi subisce aggressioni da parte di potenze come la Russia, la Cina o l’Iran, senza essere immediatamente inseriti in una cornice ideologica. Poiché questi attori sono percepiti come avversari degli Stati Uniti, ogni forma di condanna nei loro confronti rischia di essere interpretata come un allineamento con l’Occidente e un rafforzamento della sua propaganda. Ciò finisce per oscurare il fatto che anche queste potenze esercitano, in forme diverse, logiche di dominio e proiezione imperiale.
Allo stesso tempo, le narrazioni prevalenti nei media occidentali, sostenute da governi e dai media, tendono spesso a utilizzare il dramma ucraino come leva per rafforzare l’agenda strategica della NATO. In questo processo, il riconoscimento dell’autodeterminazione ucraina è ridotto a uno strumento retorico, piuttosto che valorizzato nella sua dimensione autonoma e plurale.
Questo contesto riflette una frattura più ampia nel discorso pubblico contemporaneo: l’apparente incompatibilità tra analisi geopolitica e comprensione della realtà sociale, delle emozioni collettive, delle aspirazioni popolari e dei diritti umani. Si tende a separare le strategie globali da quello delle esperienze delle persone, come se parlare di interessi statali escludesse le soggettività coinvolte.
Eppure, come sottolinea il filosofo Étienne Balibar, è proprio nell’intersezione tra umanità e politica che si costruisce la possibilità di una solidarietà autentica, capace di evitare le trappole dell’ideologia. La geopolitica non è necessariamente cinica o disumanizzante: può e deve tenere conto della complessità dei desideri, delle paure, delle contraddizioni e delle scelte delle società coinvolte nei conflitti, senza ridurle a meri strumenti degli attori statali.
Il mondo non è bianco o nero. Le potenze globali agiscono per interesse e facendo calcoli, non per ideologia, e la storia recente è piena di alleanze ambigue.
Un esempio che mostra quanto siano sfumate e complesse le dinamiche internazionali è rappresentato dalla posizione della Russia durante la guerra in Ucraina. Sebbene Mosca si presenti come nemica dell’Occidente e della NATO, e critichi apertamente l’influenza degli Stati Uniti nel mondo, ha comunque mantenuto rapporti economici e politici strategici con alcuni Paesi membri della NATO, in particolare con la Turchia.
La Turchia, infatti, è un caso emblematico: da un lato ha dichiarato il proprio sostegno all’Ucraina, vendendole anche droni militari; dall’altro, ha rafforzato i legami con la Russia, acquistando nel 2017 sistemi missilistici S-400 — una decisione che ha creato forti tensioni con gli Stati Uniti. Inoltre, Ankara ha scelto di non applicare pienamente le sanzioni occidentali contro la Russia, mantenendo canali economici e diplomatici aperti.
Un’ulteriore conferma di questa logica l’abbiamo trovata in Siria. Prima della caduta di Assad, infatti, pur essendo la Russia formalmente allineata con Iran e Siria, ha mantenuto per tutto il tempo relazioni militari e diplomatiche molto strette con Israele. Israele bombardava regolarmente milizie filoiraniane, spesso con tacito consenso della Russia, che controllava lo spazio aereo siriano.
Le relazioni internazionali, quindi, non seguono logiche rigide o ideologiche, ma si basano su calcoli pratici, convergenze parziali e compromessi. Così come ogni società coinvolta in un conflitto ha fratture, dibattiti, contraddizioni, e ridurla a semplice strumento nelle mani delle potenze maggiori significa rimuoverne l’umanità e l’autonomia.
Il “campismo” e i suoi limiti analitici
Uno degli ostacoli principali a una lettura lucida della guerra in Ucraina è rappresentato da un approccio ancora molto radicato in parte del pensiero critico e dei movimenti anti-imperialisti: il cosiddetto campismo. Si tratta di una visione del mondo che divide la realtà in due campi contrapposti - l’Occidente imperialista da un lato, e chiunque vi si opponga dall’altro - attribuendo a quest’ultimo un valore intrinseco di resistenza o legittimità, a prescindere da ogni altra dinamica.
In questo schema, la Russia non viene analizzata per quello che è - una potenza con propri interessi espansionistici - ma viene trattata come un attore “contro-egemonico”. L’Ucraina, di conseguenza, è percepita non come un soggetto politico con una storia, delle divisioni, dei desideri e delle rivendicazioni proprie, ma come una semplice pedina dell’Occidente. Questa lettura non è solo semplicistica, ma epistemologicamente sbagliata: cancella la complessità, nega la pluralità delle posizioni ucraine e appiattisce ogni forma di resistenza locale a una dinamica di potere esterna.
Un precedente evidente si ritrova nella narrazione di parte della sinistra sul conflitto siriano. Anche in quel caso, l’attenzione si è concentrata quasi esclusivamente sul ruolo delle potenze straniere (USA, Russia, Iran, Israele), mentre il sollevamento popolare siriano — nato dal basso e animato da istanze democratiche e sociali — è stato sistematicamente rimosso e trattato con sospetto. Come ha osservato l’attivista siriana Wafa Mustafa in un’intervista per Middle East Eye: “Chiunque ha voluto eliminare l’agency del popolo siriano. È solo una guerra per procura”, e certo che lo è, ma non solo. In tutto questo, il popolo siriano semplicemente non esiste. Assad è stato rovesciato anche parzialmente perché milioni di siriani hanno combattuto contro di lui”.
Il campismo, in questo senso, è un metodo analitico che nasce con l’intento di opporsi all’egemonia occidentale, ma che, se estremizzato, finisce per riprodurre esattamente le stesse logiche di potere che vorrebbe decostruire: gerarchizza i popoli, cancella i soggetti e stabilisce chi ha diritto, o meno, alla solidarietà.
Propaganda e falsa solidarietà occidentale: l’origine della diffidenza
Se da un lato il campismo riduce la guerra in Ucraina a una semplice estensione del conflitto tra blocchi imperiali, dall’altro lato le narrazioni ufficiali dell’Occidente sono ancora più problematiche. In molte rappresentazioni mediatiche e istituzionali, la sofferenza ucraina è stata inquadrata quasi esclusivamente in funzione anti-russa, diventando una leva retorica per rafforzare l’agenda politica e militare della NATO, piuttosto che un punto di partenza per una solidarietà autentica.
Questa strumentalizzazione indebolisce la credibilità di chi, sinceramente, vuole difendere i diritti dell’Ucraina. Quando i diritti umani vengono evocati solo nei contesti in cui tornano utili all’Occidente, la solidarietà appare selettiva, condizionata, funzionale a logiche di potere. Questo alimenta il sospetto - legittimo - che anche la difesa dell’Ucraina sia meno etica e più un’operazione geopolitica mascherata. Di conseguenza, molti critici finiscono per rifiutare in blocco qualsiasi narrazione filo-ucraina, facendo fatica a distinguere tra sostegno alla resistenza e adesione a una propaganda di guerra.
La stessa difficoltà emerge in altri contesti: il movimento Women, Life, Freedom in Iran, le proteste contro il governo a Cuba, la repressione talebana delle donne afghane - pur esprimendo bisogni profondi di libertà, autodeterminazione e giustizia - sono state sempre narrate secondo logiche funzionali agli interessi dell’Occidente: utilizzate per giustificare sanzioni, pressioni diplomatiche e vere e proprie invasioni militari.
Questo passato della solidarietà occidentale verso le cause popolari del Sud globale ha prodotto una diffidenza strutturale, che oggi si manifesta con forza ogni volta che si parla di diritti umani in contesti geopolitici delicati. È in questo vuoto di fiducia che cresce una reazione opposta e speculare: una radicalizzazione del sospetto, che porta a rigettare qualsiasi voce critica verso potenze non occidentali, anche quando proviene da giuste rivendicazioni. In nome dell’anti-imperialismo, si finisce così per giustificare o ignorare altre forme di oppressione, perdendo la capacità di distinguere tra la retorica strumentale dei governi e le rivendicazioni reali dei popoli.
Riconoscere le manipolazioni propagandistiche senza cadere nel cinismo è oggi una delle sfide più urgenti per chi vuole esercitare un pensiero critico e allo stesso tempo umano.
Rappresentazioni imposte
I popoli coinvolti nelle guerre tra grandi potenze hanno delle rappresentazioni mediatiche chiare: “civili” e basta, “islamisti”, “nazisti”, “donne coraggiose”. La narrazione dominante - da qualsiasi parte provenga — ha già deciso a priori che ruolo assegnare a chi soffre: pedine, martiri, complici, simboli, ma mai interlocutori e parte attiva e influente del conflitto.
Sia in Siria che in Ucraina, questo meccanismo si è manifestato in modo evidente. In Siria, l’opinione pubblica internazionale ha gradualmente interiorizzato l’idea che il conflitto fosse troppo complesso, troppo infiltrato da potenze esterne, che tutte le parti in campo fossero "sporche", e quindi non avesse senso schierarsi. La stessa logica si applica oggi all’Ucraina: più il conflitto viene letto attraverso le lenti geopolitiche, più si diffonde l’idea che la società ucraina sia un contenitore passivo, un campo di battaglia su cui si giocano interessi altrui, e non una pluralità di soggettività attive, divise, in trasformazione.
Ma i popoli non scompaiono semplicemente perché vengono ignorati dalle analisi. Le loro memorie, i loro linguaggi, la loro capacità di narrare sé stessi esistono, anche quando vengono strumentalizzati o fraintesi. In Siria, è accaduto con il lavoro di resistenza collettiva dal basso per creare una società giusta e inclusiva, con l’attivismo in esilio, con l’immensa produzione culturale. In Ucraina, questo processo è visibile oggi in diversi ambiti. Esistono gruppi e singoli attivisti che non si riconoscono nella strumentalizzazione occidentale, ma che allo stesso tempo rigettano l’occupazione russa. Alcuni denunciano apertamente le discriminazioni interne all’Ucraina, che è stata una delle tante cause che hanno alimentato il conflitto - assieme alle responsabilità NATO e l’uso politico della memoria storica.
Riconoscere queste soggettività non significa romanticizzarle né usarle per rafforzare un fronte ideologico, ma rimettere al centro la politica come luogo del conflitto umano, non solo delle strategie statali. Non è vero che le potenze hanno tutto il potere e i popoli nessuno: i conflitti sono plasmati anche da ciò che le società fanno, chiedono e costruiscono nel tempo. La caduta di Assad nel 2024 lo dimostra. È vero che l’indebolimento dell’Iran e di Hezbollah nello scorso anno e mezzo ha contribuito al crollo del regime, ma senza la pressione costante delle forze locali nella regione di Idlib, dove gruppi armati e reti civili hanno continuato a resistere per anni, quel risultato non sarebbe stato possibile. La storia non è fatta solo da chi comanda, ma anche da chi mette in pratica una propria visione.
Ripensare la guerra
Il conflitto in Ucraina ci costringe a riconsiderare non solo cosa significhi oggi la solidarietà internazionale, ma anche come osserviamo e interpretiamo le guerre. La polarizzazione ideologica ha reso difficile distinguere tra il doveroso sostegno a una popolazione o comunità aggredita e la cooptazione politica delle sue istanze da parte dei blocchi in campo. Ma è proprio questa ambiguità che impone un salto di qualità nell’analisi: leggere i conflitti non come scontri tra potenze astratte, ma come processi concreti vissuti da società complesse, divise, vive.
Rifiutare la lettura ideologica non significa adottare una posizione neutra o disimpegnata: al contrario, significa prendere sul serio le soggettività coinvolte, riconoscerne le contraddizioni, evitare di schiacciarle su schemi geopolitici prefabbricati. Significa anche riconoscere che i popoli possono essere aggrediti e, allo stesso tempo, strumentalizzati, e che il loro diritto all’autodeterminazione non si annulla quando è “scomodo” per la nostra visione.
La guerra in Ucraina non è solo una crisi internazionale: è anche uno specchio del modo in cui il discorso pubblico globale tende a ridurre la complessità del mondo. Un pensiero critico, oggi, deve partire proprio da qui: dalla capacità di ascoltare senza assorbire, di distinguere senza semplificare, di prendere posizione senza cancellare la realtà sociale e politica dei soggetti coinvolti.
In questo senso, parlare di Ucraina - come della Siria, dell’Iran, del Sudan - è parlare del nostro modo di concepire la giustizia, la solidarietà e il ruolo della politica nel mondo contemporaneo. Non si tratta di schierarsi per riflesso, ma di ricostruire uno sguardo politico capace di tenere insieme etica, critica e responsabilità.