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libano
Novembre 04, 2024
Giustizia Sociale

Narrazione e percezione del valore della vita: una visione dell’Altro tra le sponde del Mediterraneo

Approfondimento di Pasquale Porciello

Carl Gustav Jung, collega e ammiratore di Freud, si distaccò presto dalle teorie del viennese. Freud, riteneva Jung, riportava qualunque esperienza dell’uomo alla pulsione sessuale. Per Jung questo era il sintomo di una sessualità ossessiva, che lo rendeva incapace di dare il corretto valore ad altre pulsioni altrettanto importanti. Con Freud, la sessualità diveniva totalizzante, un’idea a cui piegare il mondo. Jung diede corpo alla «esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e della sua visione del mondo», considerando l’energia psichica mutevole nelle varie fasi e nei vari momenti della vita: un’energia soggetta a più forze e non ad una soltanto.

Il Novecento in Occidente, che ha preferito l’approccio usato da Freud e non quello usato da Jung, privilegiando spesso un’impostazione semplificatoria, antitetica, duale del discorso, ha dato vita a visioni ideologiche, polarizzate e polarizzanti. Queste, anche quando basate su intuizioni geniali come nel caso del padre della psicologia, unilateralizzano la comprensione della realtà. Il cambiamento fisiologico e sistematico dei contenuti non è sempre garanzia di un cambiamento dell’approccio oppositivo ed escludente.

Dove si inseriscono in tutto ciò linguaggio, narrazione, percezione? La guerra cominciata in Medioriente il 7 ottobre 2023 è in tale proposito un esempio interessante di quanto un approccio e un linguaggio ideologico diventino gli elementi chiave sui quali indagare per capire alcune dinamiche manipolatorie del discorso.

L’impatto che il linguaggio ha sulla percezione e sulla creazione della realtà è oggetto di studio delle più moderne neuroscienze, ma già il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus aveva affermato che «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo». Un linguaggio polarizzato è la condizione necessaria e il vettore di una visione polarizzata.

Nadda Oddman sul Middle East Eye passa in rassegna il linguaggio usato per descrivere la guerra a Gaza dai media occidentali (in particolare statunitensi) e sottolinea come si cambi registro quando è il momento di descrivere i palestinesi. Oddman individua infatti tre categorie: la deumanizzazione, l’uso di linguaggio vago e l’uso di terminologia inaccurata. 

Ciò che ne viene fuori è un Occidente che guarda a Oriente, ma continuando a vedere l’Occidente, in una riproposizione di schemi orientalistici e coloniali. La questione tra Israele-Palestina e Israele-paesi del Medioriente è una questione anche di colonialismo e post-colonialismo, di narrazione e linguaggio ad essi legati. 

Israele è uno stato associato dell’Unione Europea e, nell’immaginario collettivo, è a tutti gli effetti parte dell’Occidente. La sua storia è percepita come profondamente vicina alla sensibilità occidentale e dunque le narrazioni, strumentalizzate o meno, hanno una tendenza a privilegiare il punto di vista israeliano -in un certo senso interno- di default. 

Nella guerra in Libano per esempio, le criticità di Israele vengono fuori in maniera evidente, con un linguaggio incisivo, solo quando Israele colpisce Unifil; reazioni che non erano arrivate dopo un anno di guerra e massacri a Gaza, e in particolare l’ultima escalation in Libano. La sproporzione è evidente. Ma in questo caso è l’Occidente che colpisce l’Occidente e il discorso su Israele cambia registro.

La narrazione dei media in seguito agli attacchi israeliani a Unifil, Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite, le reazioni inusuali del governo Meloni – il Ministro della Difesa Guido Crosetto parla di «crimini di guerra» - pongono l’accento su una questione centrale: quanto l’applicazione pratica della definizione di valore della vita cambi a seconda se il discorso sia all’interno della cornice Occidente-Occidente, o in quella Occidente-non Occidente. Ed è qui tutta la questione della visione coloniale dell’Occidente. 

Continuando sull’esempio del Libano, la narrazione su Hezbollah è a sua volta semplificata. Vale invece la pena ampliare l’argomento per dar conto di alcune delle dinamiche che muovono la milizia-partito. Hezbollah è una forza egemonica, contro-egemonica, nata nel 1982 proprio in seguito all’invasione israeliana del Libano durante la guerra civile del 1975-1990. Rafforza la comunità sciita in Libano e assume su di sé il ruolo di argine militare, politico e culturale al potere statunitense e israeliano nell’area, la funzione di resistenza, di muqawwama, cardine ideologico su cui il Partito di Dio si fonda. Un potere che agisce come Stato nello Stato, con una serie di servizi sociali, assistenziali, un welfare proprio, una gestione della comunità in tutto e per tutto egemonica. Ciò all’interno di un sistema Libano di potere multicentrico incardinato sulla corruzione e la gestione a carattere familiare-comunitaria della politica e degli affari ad essa legati, di cui Hezbollah è stato e continua ad essere parte integrante, essendo anche un partito politico a tutti gli effetti. Ha sempre contato forti detrattori e forti sostenitori sia all’interno che all’esterno del Libano.

È altrettanto evidente quanto un fenomeno tanto complesso e controverso dal punto di vista storico, politico, sociale, culturale come Hezbollah venga percepito in maniera molto più semplificata e unilaterale. La narrazione occidentale, dunque, su questa guerra in Medioriente fa il pari con una visione unilaterale e ideologica a vantaggio di Israele e fornisce pochi elementi per capirne la natura. Già a gennaio un report di The Intercept rivelava come la copertura mediatica statunitense sulla guerra in medioriente «favorisse pesantemente» Israele.

Una volta perse di vista le dinamiche, i vari livelli di azione e interazione, una volta isolati i fenomeni senza sentire la necessità di capire i contesti, i luoghi, le lingue, i tempi, si rischia di svuotarli del loro senso originario per riempirli di un significato che non hanno. È opportuno evitare, contrariamente a come faceva Freud, di forzare ogni manifestazione della realtà a una cornice di significato prestabilita.

Diventa, invece, necessaria la cura per una narrazione attenta, che usi una terminologia precisa, adatta e che tenga conto, nonostante non sia possibile esaurire alcun discorso in un solo intervento, della complessità di fondo di questa parte di mondo e sia decisa a tenerne conto. Razionalizzare, dare spazio non tanto ad argomentazioni contro-egemoniche, correndo il rischio di rimanere invischiati in un piano linguistico ancora una volta oppositivo, ma cominciare a svincolarsi dalla semplificazione. Preferire un approccio meno unilaterale, assolutizzante, ma più aperto a una struttura multidimensionale in cui i fatti e le storie necessitano di contestualizzazioni accurate.

Insomma, la storia che si sta svolgendo sulle coste orientali del Mediterraneo, sotto i nostri occhi, ma poco a fuoco, ci pone davanti a un problema strutturale di percezione di sé e dell’altro. Con esso, anche davanti alla possibilità di riflettere sugli approcci validi per uscire dalle «strettoie opprimenti» del pensiero, nelle quali le manipolazioni del linguaggio provano a spingerci.

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