Novembre 13, 2024
Giustizia Sociale
Lottare per la giustizia ai tempi della norma anti-Gandhi
Approfondimento di Chiara Pedrocchi
“Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista”. Così scriveva il filosofo Umberto Eco nel suo saggio “Il fascismo eterno”, pubblicato nel 1997. Una delle caratteristiche presenti nel libro è la relazione tra critica, cultura e fascismo.
“Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Göbbels (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola”) all’uso frequente di espressioni quali “porci intellettuali”, “teste d’uovo”, “snob radicali”, “le università sono un covo di comunisti”, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. (…) Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento”.
Per Eco l’Ur-fascismo è una forma di fascismo che, sebbene possa manifestarsi in modi diversi a seconda del contesto storico e culturale, conserva elementi caratteristici che possono riemergere in qualsiasi epoca. Questa visione, unita alle teorie della storica e filosofa tedesca Hannah Arendt, possono essere un aiuto a comprendere alcuni fenomeni che ci troviamo a fronteggiare oggi, in Italia e nel mondo. Nel suo testo “Le origini del totalitarismo” del 1951, Arendt mette in guardia rispetto al pericolo di una società che smette di esercitare il pensiero critico.
Demolire la democrazia è un processo che non avviene all’improvviso, bensì un passo alla volta, opprimendo dapprima chi è già debole, creando norme subdole o inserendole in progetti più grandi per farle passare inosservate. Ne è un esempio il Ddl 1660, soprannominato norma anti-Gandhi perché mira a punire soprattutto coloro che oppongono resistenza passiva a pubblico ufficiale e chi utilizza i metodi della nonviolenza come forma di protesta. Approvato alla Camera il 18 settembre 2024, il disegno di legge verrà presto discusso anche in Senato.
I principali destinatari di tale Ddl sono gli attori della società civile che si mobilitano, anche secondo i principi della nonviolenza, per manifestare il proprio dissenso. Il disegno di legge è dunque rivolto alle organizzazioni, come Ultima Generazione, che protestano con azioni come i blocchi stradali (art. 14), a organizzazioni di attivisti che manifestano contro le grandi opere pubbliche (art. 19), come il movimento No Tav o chi si oppone alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. E infine, questo Ddl mira ad opprimere ancora di più le categorie di persone già marginalizzate: per esempio, chi è in carcere (art. 26) e oppone resistenza anche passiva a pubblico ufficiale per protestare per le proprie condizioni e chi si trova nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (art. 27).
Questo disegno di legge pone le condizioni per considerare soggetti pericolosi per lo stato tutti coloro che esprimono il proprio dissenso, additandoli come potenziali “terroristi”.
Il problema è che il termine terrorista è arbitrario e discrezionale, e già nella seconda metà del secolo scorso veniva usato in modo diffuso per demonizzare chi era in disaccordo con il potere, e spingere così l’opinione pubblica a individuare un “nemico immaginario”, giustificando azioni drastiche nei suoi confronti.
In occasione di un evento sulla repressione dei movimenti dal basso, organizzato dalla fondazione Voice Over a Torino il 25 settembre 2024, il sociologo Robin Piazzo ha spiegato che “la repressione non funziona mettendo tutti in carcere. Funziona in maniera più sofisticata. Deve essere un atto economico, perché il repressore non può spenderci troppe energie. Se il giudice o l’autorità esecutiva ha uno strumento facilmente applicabile e discrezionale può intimidire. Ciò che il repressore mira a ottenere è che i costi dell’azione individuale diventino molto alti e difficili da calcolare. Rendendo imprevedibile il rischio si riduce fortemente il numero di partecipanti".
Nella stessa occasione Luca Trivellone, attivista per Palestina Libera e per Ultima Generazione, ha messo in evidenza un aspetto molto importante: se il governo adotta determinate norme, ciò significa che esso è intimorito dagli attivisti e da chi racconta le loro azioni.
Secondo Robin Piazzo, i movimenti nascono nel momento in cui si individua un problema che ha una soluzione. Se il governo volesse, potrebbe adottare provvedimenti volti a costruire una giustizia socio-climatica per tutt3 ma siccome lavora nell'interesse delle élite e non della collettività, esso reprime chi denuncia, ostacola, e critica l'operato del governo.
Nonostante le sempre maggiori forme di repressione e intimidazione, c'è chi adotta un orizzonte più ampio, provando a superare la libertà individuale per rimettere al centro quella collettiva. "La mia libertà individuale come italiano privilegiato non è più importante del futuro di milioni di persone. Quindi togliamoci questo privilegio: le 24 ore che io posso passare in carcere con tutte le conseguenze e con tutta la paura del caso non sono così importanti. Non bisogna essere individualisti nell’approccio a temi quali il genocidio in Palestina e l’estinzione di massa. Se è vero, come pare dicesse Gandhi, che prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono e poi vinci, noi queste fasi le stiamo attraversando tutte. Ci hanno insultato in televisione, hanno cercato di sminuirci, adesso stanno passando a combatterci con la norma anti-Gandhi”, ribadisce Luca Trivellone.
Movimenti, racconti e repressione
Il giornalismo gioca un ruolo fondamentale rispetto alla narrazione dei movimenti, così come della loro repressione. Da una parte, vi è un tipo di giornalismo finanziato da gruppi di interesse ed élites, che non racconta il dissenso - tanto meno quando i movimenti ottengono delle vittorie. Ne è un esempio la chiusura di due siti Elbit nel Regno Unito, complici del genocidio in Israele, grazie alle azioni del gruppo Palestine Action.
Dall’altra, vi è un giornalismo indipendente e “resistente” , che sceglie di raccontare i fatti, non con le lenti del potere ma con quelle della giustizia. Ed è proprio questo giornalismo ad essere ostacolato negli ultimi anni, non solo tramite la norma anti-Gandhi ma anche con querele intimidatorie e costanti minacce, come evidenziato nel rapporto “Silencing the forth estate: Italy’s democratic drift” pubblicato nel 2024 dal Consorzio europeo Media Freedom Rapid Response, che traccia, monitora e reagisce alle violazioni della libertà di stampa e dei media negli Stati membri dell’UE e nei paesi candidati.
Secondo il sociologo Piazzo, il rischio maggiore è l’inganno da parte di giornali considerati progressisti ma che, a causa degli interessi economici degli editori, portano avanti una narrazione complice di gravi violazioni dei diritti umani o della catastrofe naturale. “Noi non imbrattiamo, noi dipingiamo. E lo facciamo cercando di far valere i colori della democrazia, o i colori del dissenso. Ma se l’azione che viene fatta è importantissima, ancora più importante è trovare il modo di raccontarla”, dice Luca Trivellone.
Le reazioni, che fare
José Antonio Berdugo Vallelado, attivista di Ultima Generazione, intervenuto durante l’incontro del 25 settembre, descrive così la situazione attuale e l'angoscia fisiologica che la accompagna: “Stanno reprimendo persone che curano i suoli e la terra. Con quale coraggio portano avanti queste azioni nei confronti di chi sta pensando alle future generazioni? ”.
Ci sono due questioni da tenere in considerazione. La prima è l’esistenza di una gioventù che resiste e che, nonostante la narrazione distorta dei media mainstream, si informa altrove e scende in piazza. Il 25 settembre ci sono state manifestazioni in tutta Italia contro il Ddl 1660, così come nelle principali città da più di un anno si susseguono manifestazioni per la Palestina e gli scioperi per il clima organizzati dai Fridays For Future. Le piazze, autorizzate o no, sono un baluardo di resistenza a ricordarci che abbiamo una voce, e che può e deve essere parte attiva del cambiamento.
Ma c’è un altro elemento da considerare, dice Robin Piazzo: “Se il rischio è alto, la massa non partecipa. Ma gli attivisti più convinti sono disposti a correre qualunque pericolo: le provocazioni aumentano la loro motivazione e rinforzano la loro lotta. Anche se sembra che reprimerli potrebbe giovare al potere, non è necessariamente così. Un esempio è quello che è successo durante il fascismo: sono stati repressi tutti i partiti moderati ed è rimasto solo quello comunista, radicale e finalizzato all’insurrezione. Durante il periodo della Resistenza, chi non voleva combattere con i fascisti scappava in montagna e, poiché non c’era alternativa, si univa ai comunisti.
Eliminare la partecipazione moderata significa obbligare chi si oppone al potere a farlo secondo i modi del gruppo più radicale. Questa polarizzazione può penalizzare anche il potere stesso”.
Con un genocidio in corso, una crisi climatica che ci presenta il conto di anni di politiche predatorie e di sfrenate logiche capitalistiche basate sul profitto, a scapito delle categorie più marginalizzate, una forbice della disuguaglianza sempre più ampia, protestare per la giustizia è un dovere di tutti i cittadini, e norme come il Ddl 1660 devono diventare la spinta per una rivendicazione ancora più collettiva e pressante. È tempo di far convergere le lotte - dal clima alla Palestina, dal diritto al lavoro alla salute - per ampliare la base critica e diventare un corpo politico più solido in grado di arginare poteri economici e governi sempre più fascisti e reazionari. Ma è soprattutto necessario cucire un’alleanza tra movimenti dal basso, narrator*, giornalist* e voci critiche affinché esse non siano lasciate sole e si amplifichi l’informazione pubblica al servizio delle comunità. Solo così sarà possibile una mobilitazione ancora più ampia della cittadinanza.