Gennaio 16, 2025
Giustizia Sociale
L'asimmetria della narrazione: quando la libertà di stampa vale solo da una parte
Approfondimento di Sara Manisera
“I diritti devono essere di tutti, altrimenti chiamateli privilegi. Uguaglianza deve significare davvero che tutti sono uguali, e non che alcuni sono più uguali di altri”. Così, diceva, Gino Strada, fondatore di Emergency. Una frase semplice, immediata, a tratti anche scontata. Eppure è proprio lì che oggi si gioca la partita della credibilità dei cosiddetti “valori occidentali”.
Se è vero che le democrazie liberali si basano su valori come il rispetto dei diritti umani, a partire dalle libertà individuali (pensiero, religione, stampa, impresa economica), sempre di più tali valori restano asimmetrici e mero paravento, dietro il quale legittimare azioni militari, economiche e coloniali da parte di Stati e attori alleati.
In questi anni, come scrive lo storico Emanuele Felice su Il Mulino, le democrazie occidentali “sono apparse, e sono state, profondamente contraddittorie nella difesa dei diritti umani e dello stato di diritto”. Lo abbiamo visto in Afghanistan e in Iraq con occupazioni militari volte ad “esportare la democrazia” con armi e metodi antidemocratici che hanno violato diritti umani fondamentali (basti pensare solo alle torture inflitte ad Abu Ghraib, senza contare i crimini di guerra denunciati da Wikileaks). Lo abbiamo visto con la violenza genocidaria e gli attacchi criminali e indiscriminati di Israele nei confronti di civili inermi palestinesi e libanesi, ospedali e ambulanze, personale sanitario e umanitario, scuole e giornalisti.
Da ottobre 2023 all’11 gennaio 2024, i giornalisti uccisi nella sola Palestina sono stati 152. Nel 2024, secondo il Committee to Protect Journalists, i giornalisti uccisi sono stati 98. E sempre nel 2024, i giornalisti arrestati in tutto il mondo sono stati 553. L’ultima, in Iran, è stata la giornalista di Chora Media e del Foglio Cecilia Sala, liberata, dopo 21 giorni di carcere, l’8 gennaio 2025.
I giornalisti e gli operatori dell’informazione sono considerati civili e sono pertanto protetti dal diritto internazionale. Colpire deliberatamente i civili costituisce un crimine di guerra. Ma se questi crimini sono considerati tali solo quando ad essere arrestati o uccisi sono quelli che consideriamo “i nostri”, allora le regole del “gioco” saltano ma soprattutto saltano la credibilità e i valori stessi che diciamo di voler difendere.
Quando è stata resa pubblica la notizia dell’arresto di Sala, il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha scritto: “L'Iran, con l'arresto di Cecilia, ha scelto di sfidare non una giornalista, non un giornale, non una testata, ma tutto quello che l'occidente considera trasversalmente intoccabile: la nostra libertà”.
Eppure, lo stesso quotidiano, così come molti altri giornali, telegiornali e programmi non ha mai dedicato un’apertura di quotidiano o una prima pagina ai giornalist3 uccisi o arrestati da Israele in questo anno e mezzo. Ecco, allora, che la libertà di stampa vale solo quando ad essere toccati sono giornalist3 reputati “vicini”, “simili”, che “rispecchiano i nostri valori”.
Per decenni, la macchina mediatica-culturale ha creato e plasmato un immaginario e una narrazione dell’Altro subalterno, definendo il valore della vita in modo asimmetrico, all’interno della cornice “Occidente-Occidente” e in quella “Occidente-non Occidente”. In altre parole, i diritti umani, l’aspirazione alle libertà, inclusa quella di stampa, valgono e vengono narrati in un certo modo quando hanno a che fare con gli interessi occidentali. Altrimenti, valgono di meno sia a livello mediatico, che politico.
Ciò che plasma questo tipo di narrazione non è privo di conseguenze, anzi. Ha un impatto culturale devastante sul pensiero e quindi sulla relazione verso ciò che nell’immaginario non è riconosciuto come “uno di noi”: in genere persone razzializzate e di altra classe sociale. Tale immaginario, plasmato con le parole e le immagini, ha legittimato e continua a rendere più accettabile l’inflizione della violenza e di altri crimini nei confronti “dell’Altro”. I libanesi, i palestinesi, i siriani, gli iracheni sono pertanto più sacrificabili perché, nella narrazione costruita e nel posto che essi occupano, “valgono di meno” e perché tutto - compresa la loro morte - è giustificabile, se serve agli interessi materiali delle potenze occidentali.
In nome della realpolitik, legittimiamo precise scelte politiche di Paesi alleati come Israele, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita che compiono impunemente crimini e violazioni del già fragile e imperfetto diritto internazionale. La conseguenza, però, è che non valga proprio più nessuna regola e che tutto sia possibile, in pace come in guerra. Non dovremmo, pertanto, stupirci se giornalist3 o più in generale cittadini occidentali iniziano ad essere usati come strumento di leva politica e di negoziazione, vista l’inefficacia del diritto internazionale e l’asimmetria di valori.
Come nel caso di Cecilia Sala, giornalista con regolare visto, trasformata in merce di scambio dall’Iran, per negoziare il rilascio del ricercatore e tecnico di droni svizzero- iraniano Mohammed Abedini, arrestato a sua volta sul suolo italiano il 16 dicembre 2024, su richiesta degli Stati Uniti sulla base di una red notice - uno strumento di cooperazione internazionale di polizia - inoltrata da Washington che però non ha rapporti diplomatici ufficiali con l’Iran.
Secondo le autorità statunitensi, l’uomo avrebbe esportato sofisticati componenti elettronici dagli Stati Uniti all'Iran, in violazione di leggi statunitensi, non italiane, sul controllo delle esportazioni e sulle sanzioni. Secondo l’Iran, Cecilia Sala avrebbe “violato le leggi della repubblica islamica”, senza dire quali e aggiunge che anche Abedini in Italia non è accusato di nulla, eppure è in prigione.
Il caso Sala-Abedini dimostra che l’unico modo per far valere il diritto internazionale - sempre più calpestato dalle potenze del Nord globale - è che la parte lesa arrivi ad arrestare cittadini a caso del paese che ha commesso l’abuso iniziale. Solo così, l’Iran ha potuto ottenere il rilascio di Abedini. Per essere credibili, dunque, le democrazie liberali, devono convincere non solo che i suoi valori siano preferibili ma che siano davvero universali. Per questo dovremmo chiedere sempre conto, con forza politica e amplificazione mediatica, delle violazioni dei diritti, a partire da coloro che sono definiti Paesi alleati.
Di fronte al doppio standard dei diritti e all’ipocrisia di determinati discorsi sulla libertà di stampa, viene da chiedersi: ma se ci fosse stata un’adeguata copertura mediatica nei confronti dei giornalist3 palestines3 sarebbe cambiato qualcosa? Più persone avrebbero manifestato e protestato contro il genocidio e le scelte dei governi occidentali? Ci sarebbe stata più pressione sulla politica?
Non lo sappiamo. Sappiamo, però, che l’asimmetria della narrazione ha già creato delle grandi differenze. Come ha detto il giornalista palestinese Abubaker Abed in una conferenza stampa, "Forse, se fossimo ucraini o avessimo un'altra cittadinanza con capelli biondi e occhi azzurri, il mondo si indignerebbe e agirebbe per noi. Ma poiché siamo palestinesi, abbiamo un solo diritto: morire e essere mutilati. Siamo stati immolati, inceneriti, smembrati e sventrati, e recentemente stiamo morendo assiderati. Cos'altro dovreste vedere per decidere di agire e fermare l'inferno che ci viene inflitto? Perfino i giubbotti da stampa che indossiamo ora ci identificano come bersagli. Stiamo solo documentando un genocidio contro di noi. Dopo quasi un anno e mezzo, vogliamo che vi schierate al nostro fianco, perché siamo come tutti gli altri giornalisti, reporter e operatori dei media di tutto il mondo, indipendentemente dall'origine, dal colore o dalla razza. Il giornalismo non è un crimine. Noi non siamo un bersaglio”.