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terra
Luglio 24, 2024
Giustizia Sociale

La terra lega i “margini”: per un patto di mutuo aiuto

Approfondimento di Francesco Piobbichi, operatore sociale, e Sara Manisera, FADA Collective

Devasta, guadagna e abbandona. È questa oggi la formula del dominio del profitto che attraversa e colonizza i nostri territori. Dal progetto Ponte sullo Stretto, fra la Sicilia e la Calabria, passando per l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria, il gasdotto Trans-Adriatico (TAP) e quello Appenninico di Snam, il rigassificatore di Vado Ligure e Ravenna, i mega impianti a “biometano”, o eolici, le piste da sci di Cortina, fino alla Valsusa, il potere assume le medesime sembianze: chi decide cosa fare, investire e gestire, lo fa sulla base di interessi materiali di una parte ristretta ed elitaria della popolazione che non tiene conto dei bisogni dei territori e di chi li abita, siano esse persone, specie animali o vegetali. 

I fondi del PNRR, destinati a grandi infrastrutture e alla cosiddetta transizione energetica, ne sono un esempio: progetti calati dall’alto, spesso legati a società con holding e sedi societarie in Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi o in altri Stati a fiscalità agevolata che non hanno di certo l’obiettivo di realizzare una giusta transizione energetica, quanto più di speculare e trarre enormi profitti grazie ad essa. Si recinta, si scavano montagne, si costruiscono mega impianti o piste da sci, si interrano gasdotti distruggendo territori, ecosistemi, boschi e comunità, sempre per il profitto di poche élites

Non possiamo però affrontare il tema del dominio senza affrontare il ruolo che oggi assume lo Stato, la sua forma di potere concreto, attore diretto ed indiretto al servizio dei processi di estrazione di valore di tipo capitalista. Al tempo stesso, dobbiamo imparare ad osservare il movimento dello Stato nella società, analizzando le modalità colonialistiche ed estrattiviste, nonché il modo di porsi con le comunità e i territori, specialmente quelli ai margini. 

Archiviata la breve parentesi sociale del dopoguerra, lo Stato oggi assume una forma molto diversa rispetto a quella del secolo passato, mostrando il suo vero volto: la violenza lungo i suoi confini, il progressivo riarmo, l’imposizione di grandi opere. Il Ponte sullo Stretto o la Tav sono come una legge: tecnicamente non conta se questa è congrua o meno, se serve o no, se persegue o meno un interesse generale. La sua realizzazione è decisa dai rapporti di forza e dagli interessi delle classi dominanti. 

Se realmente ci fosse un processo di discussione democratico, partecipativo, territoriale, non legato alla forma della burocrazia statale, alle sue norme e procedure che incardinano le decisioni dentro un modello dove le classi dominanti hanno ampio potere di scelta, forse potremmo iniziare a portare al centro del dibattito pubblico altre priorità e bisogni; a partire dalla messa in sicurezza degli Appennini dal punto di vista idrogeologico e climatico; e ancora il rafforzamento di una sanità pubblica decentrata e territoriale di prossimità; la manutenzione e la costruzione di nuove infrastrutture idriche per garantire il diritto all’acqua di fronte a una crisi climatica che sta inaridendo i nostri territori; e poi la cura della terra per fare cibo sano, attraverso un’agricoltura rigenerativa, sana, giusta per i lavoratori e l’ambiente, con metodi di distribuzione orizzontali e locali. 

Ma nonostante le nostre lotte tale processo non c’è stato finora e pensiamo che tanto meno ci sarà. 

E allora che fare? 

Numerosi movimenti di resistenza eco-sociale sparsi in diversi territori faticano ad affrontare un nodo politico centrale: non possiamo vincere nessuna vertenza locale, se non costruiamo una visione comune d’insieme in grado di misurarsi con questi rapporti di forza e con questa gabbia di acciaio con la quale hanno rinchiuso la nostra società. 

In altre parole occorre avere una visione e uno sguardo d’insieme e riportare al centro del dibattito non solo i beni comuni e la loro gestione comunitaria ma soprattutto l’organizzazione delle resistenze ecosociali, comunitarie, rurali tra i territori. 

Gli Appennini, la vertebra eco-sociale del Paese è abbandonata e marginalizzata da decenni. Alluvioni, terremoti, dissesti, frane, incendi, stanno accelerando una tendenza di fondo prodotta dallo Stato, che ha abbandonato queste aree con lo stesso identico metodo con il quale ha tagliato lo stato sociale, spingendo sempre più ai margini le classi sociali più povere e le zone considerate “sacrificabili”. Questo processo ha prodotto e continua a produrre spopolamento ed emigrazione che, per molti giovani delle aree periferiche e marginalizzate, rimane l’unica alternativa concreta al lavoro sottopagato e irregolare. 

La fascia appenninica, però, è punteggiata da minuscole storie di resistenza, da generosi tentativi di economia civile e rurale, da pratiche di intervento di mutuo aiuto durante le emergenze, da comunità che, insieme, tentano di resistere allo spopolamento. A queste pratiche, si legano le esperienze di solidarietà nei quartieri popolari, si sommano spesso le innumerevoli lotte contro le devastazioni ambientali e le speculazioni, contro la chiusura delle scuole e degli ospedali, per il ripristino delle strade. 

Dallo stretto di Messina fino alla Valsusa, l’Italia dei margini è costellata da questo arcipelago di piccole isole. È un’Italia sempre più abbandonata a sé stessa come lo sono le periferie delle nostre città. Tornano al “centro” solo quando si concentrano interessi speculativi che finiscono per finanziare le “grandi” imprese - Snam, Eni, WeBuild, etc - che incassano denaro pubblico, redistribuendo precarietà, bassi salari distruzione dei paesaggi e con essi delle comunità. La gran parte delle periferie e dei territori marginalizzati invece devono cavarsela con risorse pubbliche sempre più risicate, a causa di vincoli di bilancio, austerità e politiche statali che depauperano i Comuni dei servizi essenziali. 

È necessario, pertanto, iniziare a collegare questi processi e avviare una discussione collettiva e comunitaria su quale tipo di forma organizzativa mettere in pratica. Qualche decennio fa, i movimenti ambientali ebbero una straordinaria intuizione, ovvero quella di legarsi tra di loro in un patto di mutuo soccorso.

L’intuizione non ebbe seguito e non è questo lo spazio per discutere il perché ma forse è giunto il tempo di ripartire da quel percorso e riprendere insieme il cammino organizzativo, ragionando sulla dimensione economica della resistenza, e quindi costruendo un patto eco-sociale tra i territori “ai margini” che possa dare sostentamento alle economie popolari e al tempo stesso possa finanziare le lotte in un rapporto di mutuo-appoggio. Se c’è un’alluvione, un terremoto, una multinazionale o lo Stato che impone un progetto estrattivista, la rete delle terre ai margini si attiva e si mobilita. Ma ciò dovrebbe avvenire anche nei momenti non emergenziali, attraverso pratiche di solidarietà e di economia reale. 

Immaginare un’alternativa è una strada tortuosa in questo momento storico e non abbiamo la ricetta giusta per dare forma all’organizzazione. Sappiamo, però, che questo è un bisogno sentito da molt3. Dall3 contadin3 che non hanno mercato, ai braccianti sfruttati, all3 cittadin3-consumator3 che mangiano prodotti avvelenati, e a tutt3 coloro che fanno parte di comitati, associazioni, movimenti e portano avanti diverse lotte locali. 

Dobbiamo immaginarci una sorta di casa del popolo su ogni territorio, in grado di costruire una dimensione economica a partire dai prodotti della Terra, con quote di solidarietà destinate alle lotte e ai bisogni essenziali.

Siamo stati abituati allo Stato sociale (e ai partiti) che avevano le risorse per permettere all3 attivist3 di fare politica. Questa storia è finita. Oggi lo Stato non offre più spazi e ha aumentato la repressione, colpendo l3 militant3 più generos3 sotto varie forme (economiche, civili, penali, etc). In un Paese dove il precariato è la norma, senza un polmone economico autonomo che sostiene la resistenza, la lotta politica può farla solo chi può permettersela, e spesso chi può permettersela non ha gli stessi interessi delle nostre comunità. 

Siamo in un momento storico dove grandi battaglie eco-sociali stanno riprendendo vitalità e pensiamo che sia necessario mettere insieme saperi e pratiche per costruire resistenze al di fuori dello Stato, rimettendo al centro il tema della produzione, e ripartendo dalla terra e dal suo utilizzo sociale.

E proprio le terre appenniniche - di montagna - e le altre terre “sacrificate” dallo Stato centrale - dove per millenni si sono sedimentati saperi, pratiche, relazioni, forme organizzative e resistenze, possono diventare laboratori ecosociali di economie civile, di gestione dei beni comuni e di accoglienza. In questi contesti ancora non fortemente antropizzati, dove non ci sono state pressioni industriali e demografiche, e dove c’è ancora un forte legame con la terra, si può e si deve immaginare l’alternativa. 

In parte, già esistono queste relazioni informali e una di queste è proprio quella attorno al grano, al pane e alla festa “La Terra mi tiene”, il 25 aprile ad Atena Lucana, durante il Palio del grano a Caselle in Pittari o durante il festival dell’Alta felicità in Valsusa. 

Forse, però, potrebbe essere necessario iniziare a discutere di un patto di mutuo aiuto e di un manifesto scritto da chi abita e vive queste terre ai margini. “Non si può insegnare ai colonizzatori l’amore e la connessione alla Terra”, scrive Iman Zainab Salem, fotografa palestinese e parte del collettivo di artist3 Archive. È proprio così. I popoli indigeni e le comunità che vivono la Terra sono coloro che la curano, la amano e la proteggono. Il percorso dunque c’è già, dobbiamo solo connettere le punteggiature delle resistenze. 

Per chi volesse aderire, iniziare a discutere, ragionarci, scrivici qui: 

laterracitiene@gmail.com 

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