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tempesta
Maggio 20, 2024
Giustizia Sociale

La memoria della resistenza dei partigian3 ha bisogno di immaginare azioni concrete ’oggi

La voce di Camilla Ghiotto, intervistata da Michela Grasso e Chiara Pedrocchi

Intervista a Camilla Ghiotto, 25 anni, laureata in filosofia e autrice del libro “Tempesta”, un racconto intimo del rapporto con suo padre partigiano


D: Ci parli un po’ di Tempesta, e ci racconti cosa ti ha spinta a scriverlo?


R: Tempesta era il nome di battaglia di mio padre, partigiano da maggio 1994 fino alla fine della guerra. Io e mio padre avevamo una grossa differenza di età, 75 anni, e a due settimane dalla sua morte, nel 2016, ho trovato alcuni scritti dove raccontava la sua esperienza in guerra. In quel momento, ero una studentessa di quinta superiore, e leggere questi racconti è stata un’esperienza molto forte; non perché io non li conoscessi, alla fine li sentivo raccontare sin dalla mia infanzia, ma perché mi erano sempre sembrati delle storie di avventura, avvincenti e affascinanti. 

Ho riscoperto quegli aneddoti, descritti senza quella protezione che mio padre aveva per me, risparmiandomi le parti più cruente, come quella della fame e della violenza. Ma, leggere i suoi ricordi a 18 anni, e rendermi conto delle similitudini tra noi due, quando io l’avevo sempre sentito molto lontano, mi ha avvicinata a lui. Tra quelle righe ho riconosciuto la sua paura, non solo della guerra ma anche di crescere, di fare delle scelte, e lui la scelta più grossa e determinante l’ha fatta diventando partigiano. Mi sono resa conto che non eravamo poi così diversi, perché anche io sentivo quelle emozioni: il desiderio di diventare adulta,la voglia di indipendenza e di crearsi un’identità. E chiaramente, per la generazione della resistenza, il fatto stesso di diventare partigiani significava costruirsi una nuova identità, prendere una direzione non imposta da nessuna; qualcosa che fino a quel momento non era stato possibile. 

 

D: È da poco passato il 25 Aprile, che cosa rappresenta per te questa data? C’è qualche tradizione che segui ogni anno da quando sei bambina?  

R: Per me è sempre stata una giornata da festeggiare andando in piazza. Negli ultimi anni però, la sento più seria. Il 25 aprile è un’occasione per riflettere sul valore della memoria, un momento in cui tradurre questo passato, a cui in qualche modo io appartengo, in domande che possano dare un significato vivo al presente. Ci sono stati anni in cui sono stata nei luoghi dove ha combattuto mio padre, come l’altopiano di Asiago. Visitare i luoghi vuol dire capire a pieno la resistenza, le differenze tra i territori, i combattimenti e anche le sofferenze patite. Andare dove i partigiani hanno combattuto dà un’idea di quello che significava essere lì per loro, tanto più che, per me. sono luoghi frequentati in vacanza. Andarci con un senso diverso e prendersi quella giornata per ritornare dove sono successi eventi così importanti è un’occasione per riflettere. 

 

D: Sulla copertina del tuo libro c’è scritto “Non è mai troppo tardi per imparare a essere figli, né per riannodare la memoria del presente”; qual è per te il valore della memoria della resistenza, e come possiamo fare per mantenerla viva? 

R: Non è semplice, e il fatto che siamo qui a parlarne ne è la dimostrazione. E, se fatichiamo a mantenere viva la memoria, soprattutto quella della resistenza italiana, vuol dire che abbiamo un problema. Potremmo accomodarci nel nostro tempo e nel nostro punto del mondo ma non dobbiamo farlo. Non dobbiamo accontentarci, dobbiamo stare sempre un passo al di fuori del presente per poterlo osservare, criticare e comprendere con quei valori che ci arrivano dal passato. La memoria ci permette di cogliere, conoscere e decidere quali di questi valori vogliamo mantenere, quali abbandonare e quali migliorare. Così possiamo dare continuamente un nuovo significato al presente. La sfida più grande è far comprendere l’urgenza della memoria della resistenza.

Oggi dobbiamo soprattutto ricordarci due cose. La prima è che, al di là dell’immaginario del partigiano eroe, esiste anche una dimensione di trauma, sempre presente nei conflitti. Limitarsi all’eroismo è pericoloso, e i partigiani hanno subito esperienze fortissime e traumatiche. A mio padre stesso, non potevo toccare le dita delle mani, perché prima di diventare partigiano i fascisti l’avevano torturato infilandogli aghi sotto le unghie. Chi subisce questi traumi, difficilmente se ne libera. La seconda cosa da ricordare, è che i partigiani erano ventenni, alcuni di loro portavano nelle borse, sempre leggerissime per muoversi velocemente e a lungo, libri di poesia. Questo ci fa capire a pieno che fino a pochi giorni prima, questi ragazzi e ragazze erano sui banchi di scuola, e come noi, non sapevano fare una guerra. 


D: Quali sono le battaglie della nostra generazione? Sono davvero cosí diverse da quelle che ha combattuto la generazione di tuo papà? 

R: Nonostante la nostra generazione sia spesso dipinta con tratti tragici, io sono molto ottimista. Vedo tantissime persone partecipare in varie lotte, da quella femminista a quell’ambientalista. Questo ricalca quella capacità immaginativa comune alla resistenza. E nella Seconda guerra mondiale, immaginare un futuro diverso era ancora più difficile dato che quei ragazzi conoscevano solo una realtà dittatoriale. Proprio per questo, la loro capacità di immaginare un futuro diverso, per chi ancora doveva esistere, è incredibile.

Questo fa parte dell’avere 20 anni, ed è la stessa voglia che abbiamo noi di cambiare, di migliorarsi, di immaginare la possibilità di un mondo diverso anche quando non sembra esserci alcuna alternativa. Noi dobbiamo tradurre quest’immaginazione in azioni concrete, ed è la parte più difficile. 

Molti partigiani dicono di esserlo diventati per istinto, e per me questo è sempre stato difficile da decifrare. Per tanto tempo ho dubitato di avere quest’istinto, ma ora credo che appartenga a tutti noi. La cosa più difficile è riconoscere le proprie battaglie, perché richiede una lettura accurata del presente e quindi la necessità di stare sempre allerta. Chi vuole imporre chi possiamo odiare e chi possiamo amare? Chi può imporre quali vite siano degne di essere salvate e quali no? Noi possiamo sempre guardarci alle spalle e riconoscere quei valori ricevuti dai partigiani e portarli avanti. Molto spesso nel passato, ho pensato che le nostre battaglie non fossero importanti come le loro, solo perché non mi sembrava una questione di vita o di morte, ma in realtà non è così. Noi abbiamo il privilegio di non rischiare la morte per credere nei nostri ideali, ma questo non rende le nostre battaglie meno importanti. 


D: Parli spesso ai ragazzi delle medie di resistenza, come reagiscono le nuove generazioni di fronte a questo tema?

R: A volte mi stupisco, alcuni di loro non hanno quasi mai sentito parlare dei partigiani e si sorprendono ascoltando la storia di mio padre. Questo indica una difficoltà della scuola nel tener viva la memoria della resistenza, e per me è molto strano perché le scuole hanno una responsabilità enorme. Quando racconto la storia di mio papà e dei partigiani, vedo tantissimo interesse nelle nuove generazioni, soprattutto quando descrivo alcuni aneddoti. I più piccoli hanno una grande capacità di immedesimazione, si mettono nei panni dei partigiani e fanno domande molto pratiche, per esempio: come prendevano l’acqua? Fanno domande legate alla realtà, dimostrando il grandissimo valore delle testimonianze dirette. Penso la scuola debba fare molto di più, non ci si può affidare solamente alle famiglie per mantenere vivo il ricordo della resistenza. 



D: Il 25 aprile la resistenza palestinese non ha trovato spazio sul palco: cosa pensi di questa censura?

R: Penso sia molto triste. Io ho sempre vissuto il 25 aprile come un’occasione di riflessione e di ricordo, un momento in cui mettere in discussione il presente. Ma, se il 25 aprile diventa un momento in cui ci si limita a commemorare i partigiani, allora diventa inutile, perché rimane fermo nel passato, senza parlare a noi. Io l’ho visto anche in mio padre: fino all’ultimo si è battuto contro l’apertura di una base militare americana che doveva essere costruita vicino a Vicenza. Lui non aveva solo una riverenza verso il passato, ma era capace di tradurre quell’esperienza nel presente. Il caso della Palestina sarebbe stato un momento ideale per parlare proprio di questo e per mostrare l’importanza del non guardare dall’altra parte e non adagiarsi nella nostra sicurezza. 

 

D: Hai progetti per il futuro? Ti piacerebbe continuare a scrivere?

R: Sicuramente mi piacerebbe molto, e ci sto lavorando proprio ora. Ho deciso di staccarmi dal tema della resistenza, mi sembra di aver già detto abbastanza. In “Tempesta”, alcune parti raccontano la storia di mio padre e della sua esperienza, e lì ho utilizzato le parole dei suoi scritti. Mi sono chiesta se fosse giusto usare questi ricordi, ma alla fine mi sono detta che fosse giusto parlarne, oggi a maggior ragione. Inoltre, lavorando a questo libro ho scoperto che molti episodi raccontati da mio padre sono storicamente documentati, come il rapimento del medico o l’assalto al treno. Questo mi ha aiutata a ricostruire una cronologia, e nei suoi ricordi ho anche trovato alcuni episodi raccontati nei “Piccoli Maestri” di Meneghello, un libro importantissimo sulla resistenza. Mio padre ha fatto parte con lui di questo gruppo dei piccoli maestri per qualche settimana, prima di un rastrellamento che ne uccise molti. È stato curioso per me leggere questi manoscritti e trovare un altro punto di vista in questo racconto. 

E anche se non scriverò più sul tema della resistenza, spero di continuare a parlarne nelle scuole o in altre occasioni di ricordo. Se il racconto della storia di mio padre può parlare alle nuove generazioni, e può aiutare a mantenere vivo il ricordo dei partigiani, non posso che esserne felice. Parlare e scrivere di resistenza mi ha resa molto orgogliosa, e ho imparato a riconoscere il valore di queste storie. 

 

D: Ti va di lasciarci qualche consiglio di lettura?

R: Sicuramente consiglio “I piccoli Maestri”. Meneghello ha un’ironia dirompente e rappresenta bene quell’antiretorica che fa parte della resistenza storica e della resistenza in generale. Perché, chi ne prese parte, non aveva spazio per la retorica. All’inizio dei Piccoli Maestri, dopo la fine della guerra, il Meneghello si chiede “È tornata la pace, è tornata la società, ma cos’è la società?”. La forza dell’esperienza partigiana aveva svuotato le parole. 

Un altro autore che mi piace molto è Fenoglio, in particolare “Una questione privata”, dove racconta una storia d’amore, un’esperienza personale. È un buon libro per ricordarsi che questi ragazzi erano ventenni. 

Per ultimo, vorrei invitare a leggere la costituzione; credo rifletta molto bene l’esperienza della resistenza. Ha un carattere ispirazionale, ci sono delle norme che nel dopoguerra erano impossibili da realizzare, per esempio l’articolo 3 sul Sistema Sanitario Nazionale. Tante di queste norme erano dei sogni, ma vennero inserite comunque, e questo riflette l’immaginazione della generazione dei partigiani e della resistenza, quella necessità di spingersi un passo oltre a quello che pensiamo sia possibile. È anche possibile leggere le discussioni dell’assemblea costituente, dove si dibatte sulla possibilitá di inserire alcuni verbi al futuro, che poi vennero lasciati al presente, per non far sembrare quei sogni un qualcosa di “rimandabile”. 

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