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palestina
Settembre 12, 2024
Giustizia Sociale

La depoliticizzazione della causa palestinese come strumento di oppressione coloniale

Approfondimento di Basem Kharma e Youssef Siher, ricercatori

Troppo spesso si legge sui vari canali d’informazione e si sente nel discorso politico il termine di “comunità palestinese”, usato quasi sempre per descrivere genericamente i palestinesi, o le persone di origine palestinese, come gruppo senza separazioni né distinzioni di sorta. Questo appiattimento del termine, che omogeneizza in un unico insieme individualità diverse tra loro, non è infatti altro che un retaggio, tuttora fortemente presente nelle società occidentali, di quell'atteggiamento colonialista e orientalista insito nel modo con cui le strutture mediatiche, culturali e di potere rappresentano gli “altri”, considerati una massa omogenea, un blocco umano compatto, indivisibile e tutto uguale. 

Secondo questa visione, gli arabi - e in questo specifico caso i palestinesi - sono tutti uguali, vittime da salvare, talvolta pericolosi, poco civilizzati, ma sicuramente ancora attaccati a tradizioni e religioni ormai superate e a visioni del mondo non conciliabili con i “valori occidentali” e, quindi, “universali”. Edward Said spiegava che uno degli aspetti più intrinsecamente evidenti dell’approccio orientalista agli arabi è quello di descrivere l’Oriente come atemporale, uniforme e incapace di definire sé stesso. Questo atteggiamento porta quindi a pensare che sia inevitabile, e persino scientificamente “obiettivo”, dare per scontato l’utilizzo di una terminologia sistematica e ricca di generalizzazioni per descrivere l’orientale.

È pur vero che in situazioni straordinarie, come quella che ci troviamo a vivere dal 7 ottobre, le varie realtà palestinesi presenti in tutto il mondo abbiano cercato, tramite un difficile lavoro di dialogo tra le parti, di unificarsi in un’unica voce, che rappresenti appunto la lotta della resistenza anticoloniale palestinese, in Italia come altrove. Ma dare per scontata questa unità, soprattutto sugli approcci ideologici e metodologici con cui ogni parte concepisce e porta avanti le proprie istanze, è una visione distorta e quindi pericolosa e dannosa per il movimento di liberazione nazionale palestinese. In questo senso, è bene ricordare uno dei punti cruciali che maggiormente caratterizzano le divergenze ideologiche tra le varie realtà palestinesi presenti in Italia come altrove: la normalizzazione dei rapporti con il colonizzatore sionista. In particolar modo, uno spartiacque nel definire la relazione con il colonialismo sono stati gli Accordi di Oslo. Con essi l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, capeggiata dal partito Fatah di Yasser Arafat, riconobbe Israele in cambio della creazione di un futuro stato palestinese sui territori del ‘67, ossia su Gaza e Cisgiordania. Gli Accordi di Oslo hanno però frammentato ulteriormente il popolo palestinese portando all’esclusione dai tavoli decisionali della questione del “diritto al ritorno”, ossia il rientro dei profughi palestinesi alle loro case. Oggi, infatti, più della metà della popolazione palestinese totale (circa 12,5 milioni) non risiede in Palestina essendo stata cacciata e costretta all’esilio nel 1948. Inoltre, con Oslo si è stabilita la collaborazione in materia di sicurezza tra Israele e gli apparati di sicurezza dell’Anp, facendo sì che spesso sia l’Anp stessa a compiere arresti dietro indicazione di Israele. Questo ha comportato - e comporta tutt’ora - una spaccatura della società palestinese che, da un lato è insanabile e, dall’altro, è naturale nella definizione del proprio nemico e quindi della contraddizione primaria da affrontare.

Oggi, la contraddizione principale che vive la popolazione palestinese, e impedisce qualsiasi sviluppo, è il colonialismo. Esso è infatti il freno che limita ogni attività e pertanto è la prima questione da risolvere per poter poi affrontare le altre contraddizioni che vi sono all’interno della società palestinese. Chi oggi porta avanti la lotta palestinese vede in Oslo un vero e proprio tradimento, perpetrato da chi oggi detiene il potere in modo autoritario assumendo il sedicente titolo di “Autorità Nazionale Palestinese”. Chiedere a chi lotta per la liberazione totale della Palestina di rapportarsi e mantenere un dialogo costante con chi ha colpito alle spalle la causa palestinese è oltremodo oltraggioso e denigratorio, anch’esso sintomo di un atteggiamento coloniale che, in modo miope, vuole vedere il movimento palestinese come un tutt’uno senza divergenze. 

Ancora più grave e problematico è, inoltre, l’atteggiamento che alcune realtà italiane assumono nel volere a tutti i costi far convergere - sotto ipocriti slogan pacifisti - le varie parti verso un dialogo con i coloni della terra palestinese. Questo atteggiamento, che non rispetta i martiri e gli esiliati del colonialismo sionista, pone sullo stesso piano oppressi e oppressori o, per meglio citare il giornalista e intellettuale palestinese Ghassan Kanafani, «la spada e il collo». Per chiarire una volta per tutte la questione, non esistono compromessi e non si accetta nientemeno che la liberazione e la decolonizzazione totale della Palestina, dal fiume al mare. 


Chi è il portavoce dei palestinesi?


La volontà di identificare qualcuno che parli a nome della “comunità palestinese” è utile all’Occidente per raggiungere due obiettivi: da un lato delegare il controllo della stessa “comunità” a un ceto che si lega inevitabilmente alle istituzioni coloniali e, dall’altro, omogeneizzare le posizioni, depotenziandole e riducendone le istanze che, da politiche, vengono ridotte a semplici questioni comunitarie, sociali e umanitarie. Succede spesso poi che, così come all’Anp è stato affidato il ruolo di “portavoce del popolo palestinese”, pur avendo una autorità solo sui palestinesi di Gaza e Cisgiordania, escludendo quindi i palestinesi del ‘48 e tutta la diaspora palestinese, allo stesso modo questo paradigma che rafforza la visione colonialista si replica, seppure in maniera differente, nei paesi dove si trovano palestinesi, tra cui l’Italia. Siccome a livello internazionale è l’Anp a farsi portavoce dei palestinesi, a livello locale chi sposa le posizioni dell’Anp si autoconcede il ruolo di “portavoce della comunità palestinese”. Atteggiamenti e posizioni di questo tipo sono dannosi, pericolosi e mal rappresentanti della realtà dei fatti, molto più complessa e intricata della più facile - e politicamente strumentalizzabile - visione dicotomica con cui i gruppi di potere tendono ad approcciarsi alla storia e i suoi attori. Ancora più spesso sono i movimenti e i gruppi solidali alla causa palestinese a cercare questa fantomatica “unità d’intenti”, spingendo per una artificiosa unificazione delle voci palestinesi e cercando infine un’interazione tout-court con “la” comunità palestinese. 

Ma utilizzando atteggiamenti e azioni di questo tipo i movimenti solidali non fanno altro che delinearsi anch’essi come portatori di un approccio coloniale nel rapportarsi ai palestinesi, rientrando pienamente nella narrazione delle élite e delle strutture di potere borghesi che essi stessi combattono. È quindi importante tenere a mente tutto questo quando ci si esprime e ci si rapporta con le realtà e le individualità palestinesi (e arabe in generale). È necessario superare questo limite mentale tipico delle società coloniali, e accettare le strutturali divisioni interne e i diversi approcci alla resistenza anti-coloniale, se si vuole veramente aiutare i palestinesi nella loro lotta di liberazione nazionale ed essere attori coscienti della rivoluzione anti-imperialista.


Una causa politica e non solo identitaria


L’elemento che maggiormente traspare dai contesti sopracitati è una forte depoliticizzazione della causa palestinese: l’elemento caratterizzante diventa quello identitario e non il posizionamento politico. Così facendo, quello che viene anteposto a qualsiasi altro è la difesa dell’esistente di fronte alla volontà di sradicare totalmente i palestinesi e la loro identità. Seppur questo sia necessario, non è assolutamente sufficiente e soprattutto non porta alla liberazione della Palestina. Per la liberazione della Palestina, lo sguardo deve essere rivolto al futuro e non al passato. Se ad esempio la posizione che si adotta è un auspicio al semplice cessate il fuoco oggi, a un ritorno al 6 ottobre, viene da chiedersi cosa offrisse la situazione del 6 ottobre. E la risposta è che il 6 ottobre la Palestina non era libera, i palestinesi di Gaza erano sottoposti a un assedio decennale, i palestinesi della Cisgiordania uccisi giornalmente, i palestinesi del ‘48 sottoposti a un sistema oppressivo coloniale e soprattutto agli esuli palestinesi era ancora impedito il ritorno.

Per questo motivo, adottare una politica identitaria limita volutamente gli ambiti d’azione della causa e ne delimita le prospettive future. Anziché intendere il termine comunità in senso solo identitario, conviene dargli anche una valenza politica. Pertanto, per quanto riguarda il contesto palestinese, è possibile ritenere che sia all’interno della comunità palestinese chi si spende per gli interessi nazionali e sociali palestinesi, mentre chi vi si oppone e porta avanti una propria agenda specifica si estranea dalla propria comunità. Perciò, per quanto riguarda qualsiasi causa di liberazione nazionale, e quella palestinese è tra queste, uno dei primi passi da compiere è chiarire chi lotta realmente per la liberazione dal colonialismo e chi invece, direttamente o indirettamente, vi si oppone. Solo una fine totale e completa del colonialismo è infatti capace di liberare realmente il popolo palestinese e di permetterne lo sviluppo nelle direzioni in cui crede, e pertanto il nostro compito qui è dare voce a chi si fa portavoce dei veri interessi nazionali, ed emarginare chi invece antepone i propri a quelli del proprio popolo.

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