Novembre 19, 2024
Giustizia Sociale
Israele, femminismo bianco e razzismo: la triade del privilegio
Approfondimento di Camilla Donzelli
In occasione della Giornata internazionale della donna, l’account X delle IOF ha pubblicato un video di meno di un minuto in cui una soldatessa illustra il presunto frasario in ebraico fornito ai combattenti di Hamas per compiere quegli stupri di massa la cui notizia è stata rilanciata da molti media occidentali ancor prima di verificarne veridicità e fonti. Il video si chiude così: “L'IDF opera ogni singolo giorno, donne e uomini, spalla a spalla, per assicurarsi che nessuna donna debba mai più affrontare un terrorista mascherato e sentire quelle parole. Ora più che mai, mentre il mondo commemora la Giornata internazionale della donna, non possiamo dimenticare le atrocità commesse contro le donne il 7 ottobre. Combattete per le donne. Combattete con noi”.
L’accusa di stupri “diffusi e sistematici” commessi il 7 ottobre è stata ampiamente confutata da prestigiose testate come The Intercept, Al Jazeera e The Electronic Intifada. Eppure, con la complicità dei media europei e statunitensi, la storia è stata rilanciata a più riprese a livello internazionale e continua ad avere molto eco nella narrazione predominante del genocidio in corso. Ad un primo sguardo distratto, sembrerebbe semplicemente trattarsi di un’operazione di propaganda ben riuscita. Tuttavia, il successo di questa strategia comunicativa ha radici ben più profonde, che affondano nel substrato ideologico di quel pensiero femminista bianco che l’attivista decoloniale Françoise Vergès definisce “femminismo civilizzatore”.
Nel libro “Donne, Razza e Classe”, Angela Davis analizza approfonditamente il mito dello stupratore nero, spiegando come la falsa accusa di stupro ai danni di donne bianche sia stata sapientemente forgiata quale potentissimo strumento a servizio del razzismo coloniale. Nel corso del tempo, non solo è stata metodicamente evocata per legittimare i linciaggi e le ondate di violenza contro l’intera comunità nera, ma ha anche gettato le basi per giustificarne la presunta inferiorità culturale e intellettiva, utile in ultima istanza a conferire un significato morale all’annichilimento e alla riduzione in schiavitù delle persone nere. Difatti, se gli uomini neri vengono concettualizzati come stupratori patologici, anche le donne nere sono automaticamente investite da un immaginario stereotipante che le dipinge come promiscue o sottomesse. In tal modo, l’intero gruppo etnico assume sembianze bestiali e, in una società in cui il maschilismo è pervasivo, gli eccessi di violenza da parte della comunità bianca sono scusati – se non addirittura richiesti o acclamati – al fine di “domare” e “civilizzare” in nome della sicurezza delle “nostre donne”.
In modo analogo, le accuse di stupro a carico dei militanti di Hamas hanno deumanizzato gli uomini arabi come categoria, bestializzandoli e minando così non solo la legittimità morale della lotta di liberazione dalle catene coloniali, ma anche e soprattutto la legittimità della stessa esistenza dell’intero popolo palestinese. Da questa angolatura, l’inaudita violenza scatenata contro la popolazione di Gaza è “meritata”, e la conseguenza automatica è la giustificazione dell’intervento militare “salvifico” di Israele per “civilizzare” ed “elevare” una società patologicamente ed inguaribilmente retrograda e misogina.
Ed è proprio in questa congiuntura che si inserisce l’alleanza tra femminismo bianco e sionismo.
Continuando nella sua analisi, Davis nota come molte delle femministe attive nei primi decenni del XIX secolo appoggiassero e promuovessero attivamente il mito dello stupratore nero. Per spiegare tale posizionamento Davis risale alle origini del femminismo bianco, ricordandoci che si tratta di un movimento tipicamente ancorato alla borghesia e, di conseguenza, intrinsecamente liberale. L’approccio promosso da questo tipo di corrente non ha mai messo in discussione le ragioni sistemiche che stanno alla base dell’oppressione di genere. Piuttosto, ha sempre ridotto il discorso ad una mera negoziazione di spazi e diritti all’interno di quello stesso sistema, presentato come il migliore possibile in quanto sinonimo di benessere per quella classe dominante di cui le stesse femministe bianche liberali sono espressione. Difatti, nel corso del tempo il femminismo bianco si è prodigato nel supportare il mantenimento dello status quo, rendendosi protagonista di quella “missione civilizzatrice” improntata alla diffusione dei valori e dei modelli di organizzazione e sviluppo economico occidentali.
Non sorprende quindi che un gran numero di voci femministe europee e statunitensi abbiano fatto da cassa di risonanza alla propaganda delle autorità israeliane – basti pensare alla diffusione della campagna #metoounlessyouareajew –, alimentando quell’immaginario collettivo tipicamente femonazionalista, secondo il quale le “nostre donne” andrebbero protette da un minaccioso e oscurantista “loro”. Un “loro” che si contrappone alla rappresentazione mediatica del corpo femminile bianco emancipato, incarnazione tangibile di un occidente progressista e moralmente superiore.
A nemmeno due mesi di distanza dall’inizio dell’attacco genocidario di Israele, sul sito web del tabloid britannico Daily Mail è stato dato spazio ad un reportage intitolato “Leonesse del deserto: all’interno dell'unità di carri armati israeliana, tutta al femminile, che affronta i terroristi di Hamas”. L’articolo si concentra sulla figura della comandante del battaglione: una giovane cittadina britannica, ritratta sorridente e con un fucile a tracolla, intenta a manovrare un carro armato sullo sfondo di un paesaggio post-apocalittico. In uno degli scatti si vedono le sue mani, che l’autore del reportage descrive come “perfettamente curate e con unghie smaltate”. La comandante sembra difendere il valore e il coraggio della sua unità, interamente composta da donne, il cui scopo è quello di “proteggere le persone”. La chiusura dell’articolo è affidata alle parole di un’altra soldatessa, una cittadina israeliana madre di tre figli, che conclude: “Ne ho guardati molti negli occhi. Mi hanno guardata e hanno visto che ero una donna. Mettiamola così: non riceveranno 72 vergini perché sono stati eliminati da una donna”.
Donne in uniforme, libere di perseguire una carriera militare al pari degli uomini anche se madri, capaci di manovrare armi e carri armati con le unghie smaltate di rosso. Donne, insomma, pronte a “salvare” e “rieducare” la popolazione femminile palestinese, antiteticamente dipinta come velata, silenziata e sottomessa ad una generica entità maschile patologicamente misogina e tirannica.
Eppure le principali vittime della macchina coloniale sionista sono proprio le donne, quelle stesse donne palestinesi che Israele millanta di voler salvare tramite l’azione caritatevole delle proprie soldatesse emancipate. Ma poco importa, perché, in fin dei conti, c’è una convergenza d’intenti che unisce il femminismo bianco e il sionismo: il mantenimento del privilegio. Quel privilegio che, in una prospettiva di classe globale, è sostenuto e riprodotto solo attraverso l’estrazione di valore dal Sud geografico e dalle popolazioni indigene oppresse e sfruttate dalle politiche imperialiste. Ecco perché il femminismo bianco si affanna tanto nel trovare una giustificazione morale al genocidio in corso: riconoscere la sofferenza e la legittimità della lotta per l’auto-determinazione delle donne palestinesi – e del popolo palestinese tutto – significherebbe mettere in discussione il proprio privilegio e il proprio posizionamento ideologico. Significherebbe, in sostanza, affermare la necessità di ripensare daccapo il sistema capitalista basato sullo sfruttamento delle persone razzializzate che ha generato quel privilegio.
Che l’oppressione patriarcale sia presente nella società palestinese è innegabile. Tuttavia, l'idea che Israele rappresenti la salvezza, invece che incarnare le strutture razziste e coloniali che perpetuano e acutizzano tale oppressione, è ancora più problematico. Non si può considerare la questione dell’oppressione di genere come a sé stante, decontestualizzata dall’occupazione, dall’apartheid, dal genocidio. Com’è possibile immaginare spazi di dialogo e di cambiamento interni alla società in un contesto in cui tuttǝ, donne comprese, sono strenuamente impegnatǝ a combattere per la propria sopravvivenza?
Il femminismo bianco è una stortura retorica che estrapola e decontestualizza la questione dell’oppressione di genere nella società palestinese al fine di conferire credibilità alla logica capitalista e imperialista. Per non cadere nella trappola, è necessario ricucire lo strappo e riappropriarsi di quelle istanze radicali di cui la resistenza palestinese da tempo si fa voce.
Il primo passo da fare – forse il più importante – per incamminarsi verso questa direzione è individuare e decostruire tutti quegli stereotipi internalizzati di matrice razzista e islamofoba che dipingono la popolazione palestinese (e, per estensione, tutte le popolazioni arabe) come retrograda, misogina e omofoba. In altre parole, dobbiamo decolonizzare le nostre menti e prendere coscienza del piedistallo su cui siamo sedutǝ e che ci porta, a volte anche inconsapevolmente, a guardare tutte le identità altre dall’alto verso il basso e ad assumere toni prescrittivi che pretendono di “insegnare come si fa”.
Come suggerisce l’antropologa femminista Sarah Ihmoud, è importante rifiutare il linguaggio, la narrazione e l’immaginario dell’oppressore, basati sulle categorie liberali di Stato-nazione e frontiere, assumendo di conseguenza la militarizzazione, i confini e l’oppressione come fatti naturali. Abituiamoci, piuttosto, a metterci in ascolto e ad utilizzare le parole dellǝ oppressǝ.
Così facendo, scopriremmo per esempio che la rappresentazione stereotipata delle donne palestinesi silenti e sottomesse venduta da Israele e dai suoi alleati occidentali è un falso storico. La partecipazione della componente femminile palestinese al movimento di resistenza e, più in generale, alla vita politica ha infatti una lunga storia. Storia che risale agli inizi del ‘900, con un contributo attivo alla resistenza contro l’occupazione britannica. Storia che continua e si evolve fino agli anni ‘70 e alla Prima Intifada, in cui i Comitati delle donne ricopriranno un ruolo fondamentale. Storia che arriva fino a oggi, con preziose esperienze individuali e collettive. Una storia che svela in maniera cristallina quanto sia importante combattere su più fronti, tenendo a mente che non si può abbattere una forma di oppressione alle spese di un’altra. Una storia che ci invita ad aprirci ad immaginari di liberazione del tutto nuovi.