Marzo 20, 2025
Giustizia Sociale
In ghetto a Milano: tra eredità coloniali, lager di Stato e zone rosse
Approfondimento di Camilla Ponti
“Chiediamo una vita senza macchia? Ma noi quando giudichiamo le nostre vite possiamo dire che la nostra è senza macchie? [...] Penso che la statua debba rimanere lì". Queste sono le parole pronunciate dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, in un video messaggio pubblicato sul proprio profilo Facebook, a margine di un'azione portata avanti dalla Rete Studenti Milano e LuMe verso la statua di Indro Montanelli, presso l’omonimo parco, nel giugno 2020. Dopo averla coperta con della vernice rossa e averci scritto alla base “razzista stupratore”, la richiesta era stata quella di rimuoverla. Sala, però, si rifiutò.
Indro Montanelli è stato un giornalista e scrittore italiano. Dunque, quali sono le macchie verso cui Sala ci invita ad essere clementi? Fascismo, colonialismo, schiavismo, stupro e pedofilia. Montanelli prese parte alla feroce campagna coloniale fascista italiana in Etiopia, durante la quale comprò come schiava e sposò una ragazzina eritrea di dodici anni, che Montanelli chiama Destà. Nella rubrica “Da la Stanza di Montanelli”, presente sul Corriere della Sera, in un articolo del 12 febbraio 2000, Montanelli ritratta l’età della ragazzina, scrivendo che aveva quattordici anni. All’interno del programma televisivo “L’ora della verità” del 1969, Montanelli rivendica ed esalta con orgoglio la pratica coloniale del comprare come schiave bambine e ragazzine delle popolazioni colonizzate.
Il parco Indro Montanelli è un esempio dell’odonomastica coloniale milanese. L’odonomastica è il ramo dell’urbanistica che ha per oggetto lo studio dei nomi delle strade, piazze e vie di una città. Sul sito del Comune di Milano è possibile reperire una mappa della città che mostra i numerosi riferimenti del retaggio coloniale italiano ancora presenti nel capoluogo meneghino. Mentre il primo cittadino milanese si riferisce a crimini coloniali di fascisti bianchi con l’appellativo di macchie, il trattamento riservato oggi in Italia verso persone razzializzate è ben diverso. Infatti, Milano è una delle dieci città italiane all’interno delle quali il corredo coloniale si esprime non soltanto nel bagaglio storico e culturale odonomastico, ma in odierni luoghi di segregazione razziale: i CPR, o Centri di Permanenza per il Rimpatrio.
Scrive il rapper italo-marocchino Zefe:
Uno si è impiccato in gabbia, l'altro espulso dall'Italia
Nabil scappa dalla Francia, Hamza è fuori da duе giorni
I CPR sono delle istituzioni totali, ossia dei luoghi statali di confinamento e assoluta privazione della libertà personale, all’interno dei quali viene esercitata la detenzione amministrativa, un particolare tipo di prigionia utilizzato esclusivamente nei confronti di persone migranti e/o non riconosciute come cittadine a causa di un illecito amministrativo: l’essere prive di documenti in regola. Dunque, la detenzione amministrativa prevede una privazione della libertà personale in assenza di reato.
Partendo dal presupposto che qualsiasi forma di prigionia ed istituzione totale, tra cui quella carceraria, debba essere superata ed abolita, il fatto che la detenzione amministrativa sia esterna al circuito penale ed esente dall’infrazione di qualsivoglia legge mostra chiaramente come essa sia strumento di razzismo istituzionale. Infatti, se lo scopo esplicito dei CPR è la deportazione, pubblicamente chiamata rimpatrio, i dati sulle effettive deportazioni annue, che si aggirano intorno al 50% rispetto al numero totale delle persone detenute, evidenziano come la loro funzione primaria e implicita sia in realtà quella di controllare e isolare le persone migranti e/o non riconosciute come cittadine. I CPR non sono soltanto delle carceri: sono dei lager di Stato. Il termine lager significa campo di concentramento, luogo e condizione di emarginazione, di segregazione, di maltrattamenti. Nei CPR si assiste alla sospensione di qualsiasi tipo di diritto e ad una vera e propria legalizzazione della tortura di Stato. La rete Mai più Lager - No ai Cpr documenta dal 2018 le devastanti condizioni a cui sono sottoposte le persone rinchiuse nei CPR, e le violenze istituzionali quotidiane.
Secondo Nicola Cocco, medico infettivologo esperto in medicina detentiva e membro della rete Mai Più Lager - No ai Cpr e della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, “I CPR e la detenzione amministrativa rappresentano il tombino attraverso cui sta emergendo a livello macroscopico, in particolare in società post-coloniali che non hanno mai fatto i conti con la loro post-colonialità, come quella italiana, la melma del razzismo sistemico e istituzionale. Le vie attraverso cui i CPR estrinsecano la loro patogenicità possono essere sviluppate su tre assi: il degrado igienico, sanitario e sociale; la sofferenza, strutturale al CPR stesso; il regime di totale abbandono di basagliana memoria. Questi assi convergono su un grosso vettore: quello della violenza. Il discorso della violenza è talmente connaturato al CPR e alla detenzione amministrativa da spaziare dall'autolesionismo alla violenza “dei” corpi e “sui” corpi fino ad arrivare alla violenza delle deportazioni in sé. Questa “topologia della violenza”, per dirla con le parole di Han, ossia la capacità della violenza di esprimersi in forme molteplici, mi portano a considerare la detenzione amministrativa come una delle lame che costituiscono la “violenza strutturale” che ancora condiziona la vita delle persone colonizzate, marginalizzate, razzializzate. Ovviamente, essendo la reclusione nei CPR una forma di necropolitica, essa ha degli enormi impatti sulla salute mentale, fisica e sociale delle persone recluse”.
Con necropolitica, termine coniato dal filosofo e storico camerunese Achille Mbembe, si intendono tutte quelle forme di dominio post-coloniali che hanno lo scopo di selezionare tramite pratiche giuridiche, politiche e sociali - dirette e indirette - le categorie di persone che devono essere lasciate morire e/o uccise direttamente, poiché scomode o indesiderate. La reclusione all’interno dei CPR è una delle massime espressioni di necropolitica, poiché prevede una concreta esposizione alla morte reale ma anche simbolica e sociale delle persone rinchiuse. Tramite l’attuazione di metodologie coloniali in casa, i lager di Stato si reggono sul mantenimento di un incessante stato di terrore e oppressione e su una perenne condizione di dolore e staticità. Per il funzionamento del nostro sistema giuridico i CPR, come ogni lager, sono dei non-luoghi dove lo stato di eccezione smette di essere una sospensione temporanea dello Stato di diritto, e diviene un’organizzazione spazio-temporale stabile, integrata e permanente all’interno della comunità.
Rispetto all’influenza dei CPR sulla città e sulla cittadinanza, Sofia Franchini, dottoranda in antropologia sociale che ha scritto una tesi per il Master in Migration and Diaspora Studies presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra intitolata “And yet, no one sees it”. Cohabiting with immigration detention in Milan, Italy”, ritiene che “I CPR, nonostante siano isolati rispetto ai territori in cui si trovano, condizionano profondamente lo spazio intorno a sé. Il CPR di via Corelli a Milano è situato in una zona di passaggio, dove il movimento è incentivato; è impressionante il quantitativo di persone che girano lì intorno senza sapere cos’hanno davanti. Ho ragionato rispetto al movimento intorno a Corelli in comparazione ad un altro modo di occupare lo spazio: il disegnare. Disegnare vuol dire fermarsi in un punto e, intorno ad un luogo come Corelli, chi si ferma viene subito identificatə dalle Forze dell'Ordine come sospettə, pericolosə. I CPR vengono spesso definiti dei ‘buchi neri’ per la scarsità e la difficoltà a reperire informazioni, e per il senso di disperazione che impongono sulle persone recluse. Volendo prendere la metafora astrofisica nel suo senso letterale, la mia ricerca mi porta a suggerire che il CPR, come un buco nero, modifica profondamente lo spazio attorno a sé e il modo in cui i corpi sono portati a circolare attorno ad esso. Le persone recluse devono essere immobili. C'è un legame fondamentale fra il movimento e lo sguardo, dove la gente spesso vede ma non nota. Il tutto, sotto l'occhio controllante dell'autorità: le telecamere, le Forze dell’Ordine. Al di fuori, tutto è nascosto. Vedi solo un muro. Finire in un CPR è una delle cose peggiori che possa succederti nella vita. E questo non possono non saperlo anche loro che lo controllano”.
Il controllo del movimento è una pratica fondamentale della cultura coloniale. Ad oggi, all’interno della città di Milano, esso non si manifesta soltanto nell’esistenza di espliciti luoghi di segregazione razziale e incarcerazione come il CPR, ma anche nella presenza delle zone rosse. Le zone rosse sono perimetri urbani, istituiti nel periodo di Natale e per ora prolungati fino al 31 marzo 2025, all’interno dei quali è vietato l’accesso e la permanenza a persone considerate pericolose o moleste o che risultano essere segnalate - non indagate né tantomeno condannate - per alcune tipologie di reati. Dunque, le Forze dell’Ordine hanno il potere di fermare, identificare e sanzionare persone a loro discrezione rispetto a ciò che ritengono essere decoroso o meno. All’interno di una città dove per il semplice fatto di essere una persona razzializzata rischi la vita, come abbiamo visto con l’omicidio di Ramy Elgalm, è evidente come le zone rosse siano il proseguimento di politiche razziste e classiste che puntano alla segregazione, con conseguente controllo, di alcune categorie di persone. Infatti, la profilazione razziale è alla base dei fermi portati avanti dalle Forze dell’Ordine. Le zone rosse sono anche un ulteriore passo nel piano securitario e repressivo di smantellamento e criminalizzazione dell’aggregazione di persone marginalizzate. Non a caso sono state istituite, oltre a piazza Duomo e in zona Navigli, intorno alle tre maggiori stazioni di Milano: Centrale, Rogoredo e Garibaldi, note per essere tra i principali spazi dove dormono, soprattutto in inverno, persone senza fissa dimora.
Nonostante la sua facciata di inclusività, è tangibile come Milano sia una città all’interno della quale pratiche coloniali di ieri e di oggi sono ancora preservate e portate avanti. A livello globale, anche a seguito dell’intensificazione del genocidio del popolo palestinese, sempre più persone si stanno unendo per costuire insieme realtà collettive basate sui valori della decolonialità, dimostrando come la dissoluzione della cultura coloniale e suprematista bianca sia difficile, ma possibile. Secondo Dalia Ismail, attivista italo-palestinese, “Per decostruire e rifiutare i principi coloniali bisogna prima di tutto conoscere la storia, il passato coloniale del proprio paese, prenderne consapevolezza e responsabilizzarsi a riguardo, a livello individuale e collettivo. Statue come quella di Montanelli a Milano vanno buttate giù, nomi di parchi e strade dedicati a colonizzatori vanno cambiati, perché altrimenti si cancella la veridicità di quanto accaduto e i crimini connessi. La memoria va preservata e mantenuta, ma deve essere una memoria che condanna, non che esalta. I campi di sterminio nazisti sono stati mantenuti come monito rispetto a quanto accaduto. Si potrebbero creare musei che raccontino il passato coloniale e le atrocità compiute dall’Italia, si potrebbero creare spazi che condannino e che allo stesso tempo mantengano il ricordo delle persone che questo paese ha colonizzato. Senza memoria il passato si ripete. Lo vediamo ogni giorno con il genocidio in Palestina. Lo studiamo a scuola, quando lo sterminio dei popoli nativi viene chiamato scoperta dell’America. Non esiste memoria collettiva di quanto compiuto dai colonizzatori europei in quelle terre, parliamo di negazionismo allo stato puro. Per abbracciare i principi della decolonialità bisogna partire da un intenso lavoro su se stess*. E, spesso, le persone bianche e occidentali non vogliono farlo, perché perderebbero i privilegi che hanno sempre naturalizzato”.