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giovani italiani
Giugno 15, 2022
Giustizia Sociale

Giovani italiani: il ritratto di un paese che scappa tra diseguaglianze e assenza di Politica

Approfondimento di Michela Grasso, SPAGHETTIPOLITICS

«Palermo puzza splendidamente, è il motivo per cui non riesco a lasciare questa città, la sua potente decadenza che tenta di rialzarsi continuamente. Palermo è affascinante per me, potrei vivere a New York, Parigi, Roma o Napoli, ma vengo sempre attratta da Palermo». Silvia Scaduto, 24 anni, cita una frase di Letizia Battaglia, riferendosi alla cittá dove è nata e cresciuta, poi aggiunge: «Siamo in pochi ormai a voler restare in Sicilia ma io ho la speranza di farcela, di poter restare e di poter sempre comprare biglietti sia di andata che di ritorno». La speranza di Silvia è condivisa da lei e da altre migliaia di giovani italiani che si trovano a dover emigrare in altre regioni, o altri Paesi, alla ricerca di opportunitá lavorative. La Sicilia, per esempio, è la seconda regione per emigrazione verso il centro-nord, preceduta dalla Campania e seguita dalla Puglia. Negli ultimi dieci anni, 1 milione e 140mila persone hanno lasciato il sud e le isole, per trasferirsi nel centro-nord. Secondo i dati ISTAT del 2020, il bilancio tra uscite e entrate risulta nella perdita di 527 mila residenti nel sud Italia, come se nel giro di dieci anni l'intera Basilicata fosse scomparsa.


Il quadro dipinto da questi dati non è positivo. All'emigrazione dal sud verso le regioni del nord, si aggiunge anche la diaspora dei 980 mila italiani che hanno lasciato il paese negli ultimi dieci anni. Gli italiani sono da sempre un popolo di migranti benché, a volte, si faccia fatica a ricordarlo. Basti pensare alle grandi migrazioni del diciannovesimo secolo verso tutti gli angoli del mondo. In qualche modo, dunque, "il migrare" è sempre stata una componente dell'identità italiana. Ciò, tuttavia, non lo rende meno ingiusto o doloroso.


Per analizzare la situazione dei giovani italiani negli ultimi anni è quindi necessario non solo guardare ai numeri, ma anche affidarsi alle storie dei diretti interessati. É importante che siano i giovani stessi a raccontarsi, a spiegare le loro difficoltà e ad avere una voce in capitolo quando si tratta di trovare delle soluzioni politiche. Al momento, l'Italia è prima in Europa per giovani, tra i 15 e 29 anni, non impegnati in un percorso formativo o scolastico e neppure impiegati in un'attività lavorativa. Questa categoria di giovani viene chiamata NEET (Not in Employment, Education or Training.). Nel 2020, in Italia si contavano 2,1 milioni di NEET, su un totale di 9,8 milioni in tutta l'Unione Europea. È interessante notare come, nel mezzogiorno, il 32,6% dei giovani sia NEET, un numero che al nord si dimezza arrivando a 16,8%. Quando si guarda a questi numeri è fondamentale ricordare che in Italia è molto comune lavorare con contratti irregolari. Un'indagine ISTAT pubblicata da Il Sole 24 ore, contava 3,7 milioni di lavoratori senza contratti regolari nel 2020. É probabile quindi, che molti di quei giovani contati come NEET, siano in realtà lavoratori "in nero". Lavorare regolarmente è, però, un diritto, e questo squilibrio tra nord e sud, anche in termini di contratti, racconta ancora una volta una storia di disuguaglianze che non sono limitate solamente al lavoro ma anche alla società, alla politica, all'accesso ai servizi come ospedali, scuole e mezzi di trasporto. 


Quando si parla di disuguaglianza è necessario, inoltre, ricordare come questa cambi anche in base allo spazio in cui si vive. Per esempio, un adolescente che vive in un paesino degli Appennini potrebbe aver bisogno di molto più tempo per raggiungere la scuola. Non è raro incontrare ragazzi e ragazze costretti a viaggiare due ore ogni giorno per andare e tornare da scuola, tempo sottratto non solo allo studio, ma anche alla vita quotidiana. In situazioni simili, chi non ha un facile accesso alla scuola di proprio interesse subisce uno svantaggio significativo, vedendosi così leso il proprio diritto allo studio. 


La pandemia è stata la dimostrazione evidente delle disuguaglianze all'interno del sistema educativo italiano. Da un lato, diversi studenti hanno apprezzato la DAD, ad esempio quegli studenti con problemi di mobilità fisica o chi doveva trascorrere troppo tempo sui mezzi pubblici per raggiungere la propria scuola. Dall'altro, la pandemia ha mostrato che non tutti hanno gli strumenti per l'apprendimento digitale, e che i mezzi fisici per studiare non sono un bene comune. Nel 2020, tra marzo e giugno, 600 mila bambini fino ai 14 anni non hanno frequentato nessun tipo di lezione, non solo per problemi organizzativi delle scuole ma anche per mancanza di strumenti tecnologici. Secondo i dati ISTAT, durante la pandemia, 1 bambino su 6 non aveva a propria disposizione attrezzature informatiche adeguate. Per questo è necessario prendere in conto diversi fattori quando si analizzano le disuguaglianze nel mondo del lavoro e dell'educazione per comprenderne meglio le cause e trovare soluzioni più efficaci.


Negli ultimi anni, Silvia, ha sperimentato diversi lavori in Sicilia. Prima ha lavorato per un'azienda di catering. «Venivo pagata 50 euro al giorno per lavorare dalle 8 alle 10 ore, questa era la paga per le donne, gli uomini venivano pagati 80 euro». Paga bassissima a parte, il dettaglio della differenza di stipendio tra uomini e donne non è irrilevante. Questo ci ricorda un'altra dimensione della disuguaglianza, quella di genere, e del forte impatto che ha nel mondo del lavoro. Un discorso, lungo e complesso, che verrà affrontato nei prossimi approfondimenti. Ma sono le parole di Silvia a ricordare quanto lo sfruttamento sia fenomeno non solo economico ma anche e soprattutto culturale.


«Qui in Sicilia, ma penso in tutta Italia, esiste una cultura dello sfruttamento. Quando cerchi un lavoro, ti vengono proposte giornate di prova non pagate e paghe ridicole, noi cresciamo con i nostri genitori che ci dicono di partire, di andarcene via appena possiamo per un futuro migliore», racconta Silvia, riferendosi a un'altra esperienza lavorativa in un asilo dell'infanzia, dove si è trovata a gestire intere classi di bambini per quattro giorni senza mai essere pagata. Secondo la titolare queste erano "giornate di prova". Il periodo di prova può essere necessario, sia per il dipendente che per il titolare, ma secondo la legge italiana deve essere pagato perché si tratta di lavoro a tutti gli effetti. 


La storia di Silvia non rappresenta un'eccezione. Anche Luca Tesini, 22 anni, e Giulia Boldo, 21 anni, si sono trovati a vivere situazioni simili in Veneto, la loro regione di provenienza. «Noi abbiamo provato a cercare un lavoro a Jesolo la stagione estiva Alcune proposte erano vera e propria schiavitú. Venivano proposti contratti da quaranta ore settimanali per 600 euro al mese, io mi sono ritrovata a lavorare per un ristorante, 7 giorni su 7 con una mattinata libera a settimana, 10 ore al giorno, pagata 1200 euro al mese. Era il mio primo lavoro, non sono riuscita a trovare niente di meglio», spiega Giulia. Oggi, i due ragazzi vivono in Islanda dove lavorano nella ristorazione, ricevendo per 140 ore al mese una paga doppia rispetto a ciò che ricevevano in Italia.


Silvia, Giulia e Luca raccontano storie già sentite che calzano a pennello con la stagione corrente, la primavera. É infatti questo il momento in cui diversi celebri ristoratori iniziano a lamentare la carenza di personale, attribuendola alla pigrizia e alla svogliatezza dei giovani. Ogni anno, puntualmente, vengono ripetute le stesse frasi. Eppure è curioso notare come, nel 2021, le parole dei ristoratori siano state smentite dai dati INPS. L'estate scorsa ha infatti registrato un record nel numero di assunzioni nel settore alberghiero-turistico, con l'attivazione a maggio 2021 di 142,272 contratti stagionali, il doppio rispetto al 2017.


Le migrazioni interne, tra nord e sud, e quelle esterne, dall'Italia verso l'estero, sono un segnale di allarme ignorato da troppo tempo. In un paese che invecchia sempre di più, la fuga dei giovani è una condanna. L'Italia è il terzo paese più vecchio in tutto il mondo, nel 2020 il 23% della popolazione aveva più di 65 anni. E all'aumento dell'età media italiana, al momento 45.9 anni, corrisponde una diminuzione drastica delle nascite. Questi numeri sono il riflesso di un paese che si è dimenticato dell'esistenza dei giovani, e che si rifiuta di migliorare le condizioni lavorative dei propri cittadini. Un paese dove la politica è incapace di mettere in atto politiche visionarie per i prossimi trent'anni. Solo garantendo un trattamento adeguato e equo ad ognuno, si può sperare che l'emigrazione diminuisca. E solo garantendo sussidi, incentivi e politiche serie rivolte ai giovani e alle famiglie si può garantire un aumento della natalità e la salvezza del "Bel paese".


Quando si parla di disuguaglianza, si pensa immediatamente al divario tra il "ricco" e il "povero". E sicuramente questa è una delle dimensioni del fenomeno, ma c'è molto di più in mezzo. C'è la disuguaglianza tra cittá e regioni, che ha conseguenze profonde sulle possibilità per una persona di lavorare, studiare e svagarsi. C'è la disuguaglianza di genere che ha un profondo impatto sulle carriere e sui percorsi di vita delle donne, e l'equivalente vale per le persone straniere. Le dimensioni della disuguaglianza in Italia sono diverse, e sono intrecciate con l'identitá, la provenienza, il genere e le abilitá fisiche di ciascuno. Scriverne e parlarne è un primo passo per riconoscere il problema e suggerire soluzioni costruttive. I prossimi articoli, con un focus sui giovani, saranno un primo passo in questa direzione.


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