Aprile 07, 2025
Giustizia Sociale
“Fuoco trasformativo”: il transfemminismo come lotta contro ogni forma di oppressione
Approfondimento di Camilla Donzelli
Una delle caratteristiche più subdole del capitalismo è la capacità di cooptare le istanze più radicali e svuotarle dei loro contenuti politici, trasformandole in beni di consumo modellati secondo i bisogni del mercato. Lo abbiamo visto nel corso degli anni con il Pride: originatosi a partire dalla rivolta di Stonewall del 1969 in risposta alla violenta oppressione a cui le persone queer erano soggette, è oggi diventato una ricorrenza fortemente brandizzata, in cui aziende e attori istituzionali si affannano a sfoggiare un’edulcorata immagine queer-friendly utile ad aumentare popolarità e gradimento – salvo poi dimenticare completamente il significato dei termini “equità” ed “inclusività” per il resto dell’anno. Anche l’8 marzo non è immune a questa dinamica.
Il fatto che in Italia l’8 marzo sia stato ribattezzato “Festa della donna” è già di per sé sintomatico. Anche la denominazione ufficiale “Giornata internazionale della donna”, adottata dalle Nazioni Unite nel 1975, cela tuttavia un tentativo di pacificazione, il cui intento è depoliticizzare le origini di questa ricorrenza.
Fu Luise Zietz, delegata del Partito Socialdemocratico di Germania, a proporre nel 1910 l’organizzazione di una “Giornata delle Donne” che promuovesse non solo la questione del suffragio universale, ma anche tutto ciò che riguardava “l’intera questione femminile, secondo la concezione socialista”. La prima “Giornata delle Donne” si tenne il 19 marzo 1911, e fu in sostanza un evento organizzato da e per le donne lavoratrici: l’intento era prendere le distanze dal movimento femminista maggioritario dell’epoca, principalmente composto da donne bianche di classe medio-alta, e catalizzare l’attenzione del dibattito politico sulla condizione complessa di chi si trovava all’intersezione dell’essere donna, lavoratrice, sfruttata, spesso razzializzata.
Il processo di mercificazione dell’8 marzo a cui stiamo assistendo oggi può in parte essere interpretato analizzando le correnti di polo opposto che continuano ad animare l’universo femminista. La prima e fondamentale distinzione da fare è quella che separa il femminismo liberale dal femminismo radicale anti-capitalista. Il primo aspira ad una mera uguaglianza di genere all’interno dell’ordine sociale precostituito, senza metterne in discussione la struttura ideata e perpetuata dai gruppi dominanti; il secondo ambisce invece alla liberazione collettiva, da raggiungersi attraverso un ribaltamento completo del sistema socioeconomico. Il femminismo liberale – spesso simbioticamente associato al femminismo bianco – è una delle massime espressioni di quello che la studiosa femminista Nancy Fraser definisce “neoliberismo progressista”: un sistema incentrato sull’individualismo, che celebra la diversità, l’emancipazione e la meritocrazia in chiave capitalista, smantellando le protezioni sociali ed esternalizzandole secondo una logica di scambio di beni e servizi.
Negli ultimi anni, complice il femminismo liberale, la narrazione dominante sull’8 marzo ha progressivamente abbandonato il conflitto per abbracciare la celebrazione. Da lotta collettiva ad occasione pacificata, in cui si festeggiano i successi delle donne o si richiede, al massimo, la concessione di qualche diritto in più – a patto, però, che le donne siano quelle giuste: bianche, allineate agli stereotipi di genere, vincenti, performanti, impeccabili. Il messaggio è chiaro: non serve abbattere il sistema, basta imparare a giocare secondo le sue regole.
Ma in questo quadro che ne è di tutte quelle altre identità non conformi (per orientamento sessuale, identità di genere, appartenenza etnica, disabilità, classe, ecc.) che soffrono tanto quanto le donne, e spesso molto di più, sotto il peso opprimente del patriarcato? Esiste un discorso più inclusivo e radicale, in grado di reinstradare l’8 marzo verso un percorso di liberazione collettiva?
Il transfemminismo come chiave di convergenza
Rispetto ai femminismi del passato, che abbracciavano in maniera quasi del tutto acritica la suddivisione biologica di genere, le correnti che si sono sviluppate a partire dagli anni ‘90 hanno cominciato a mettere in dubbio i binarismi (uomo/donna, eterosessuale/omosessuale, ecc.), lasciandosi contaminare dalla teoria queer. Oggi, all’interno di quella che è stata definita quarta ondata femminista, trova spazio il transfemminismo, una corrente che rigetta del tutto l’approccio escludente dei femminismi tradizionali. Accogliendo un ventaglio variegato di identità non conformi, analizza infatti le strutture di dominio che opprimono i gruppi marginalizzati riconoscendo come le disuguaglianze siano il risultato di posizionamenti complessi, frutto dell’intersezione di vari fattori: identità di genere, orientamento sessuale, appartenenza etnica, classe, disabilità, e così via.
Nel panorama transfemminista italiano, Bruciamo Tutto è un movimento di disobbedienza civile nonviolento nato da poco. “Bruciamo Tutto nasce l'8 marzo 2024”, spiega Noemi Diaferia, unә dellә co-fondatorә del movimento. “Noi quattro persone che abbiamo cofondato Bruciamo Tutto facevamo parte di Ultima Generazione, e al suo interno si era venuto a creare quello che chiamavamo ‘cerchio sodo’, uno spazio per persone socializzate come donne, sia cisgender che transgender, in cui condividere riflessioni su temi che ci riguardavano da vicino. Subito dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin si era finalmente creato un dibattito in cui si cominciava a parlare pubblicamente di patriarcato a livello sistemico, così abbiamo pensato che fosse il momento giusto per dare forma a qualcosa di concreto.”
“Nel nucleo originario due persone su quattro sono non bianche e sempre due su quattro sono queer”, continua Noemi, “quindi sentiamo moltissimo l’approccio intersezionale: viviamo il sovrapporsi di varie forme di oppressione sulla nostra pelle e ne capiamo la portata a livello più ampio”.
“Per noi il concetto di ‘fuoco trasformativo’ che accompagna il nome è molto importante”, specifica Chloé Bertini, altra co-fondatrice del movimento. “Significa bruciare quello che non serve più per preparare un terreno fertile su cui possa nascere qualcosa di nuovo. Questo è ciò che pensiamo il transfemminismo possa fare, rompere le linee di oppressione e immaginare una nuova società, facendolo con un costante impegno alla trasformazione, non pensando mai di essere arrivatә ma essendo consapevoli di trovarci su un percorso di costante liberazione”.
Ivan Farace, unitosi a Bruciamo Tutto come attivista meno di un anno fa, pone l’accento su come il transfemminismo possa rappresentare l’antidoto ad una frammentazione politica sempre più lacerante: “La lettura intersezionale che il transfemminismo offre ha una forza devastante dal mio punto di vista, perché va ad intervenire su vari piani che però sono tutti interconnessi fra loro. Se parliamo di Palestina, per esempio, non parliamo di un qualcosa di distante e alieno: parliamo di diritti umani, del diritto alla vita e all’auto-determinazione, e quindi parliamo anche di diritti delle donne e di identità queer schiacciate da un’occupazione coloniale. O ancora, se parliamo di ambiente e antispecismo stiamo ridefinendo la nostra relazione con specie non umane, il che ci porta a riflettere sul modello capitalista. Il transfemminismo non perde mai di vista l’analisi d’insieme e tutti i possibili collegamenti”.
“Quello che secondo me manca è una cornice comprensiva per organizzare le nostre idee in modo che ogni forma di oppressione venga tenuta in considerazione: patriarcato, capitalismo, imperialismo, razzismo, abilismo, e tutto il resto”, continua Chloé. “In tal modo potremmo avere una strategia e un orizzonte comuni in cui poterci muovere tuttә, sapendo che anche se stiamo camminando su sentieri diversi ci stiamo comunque muovendo nella stessa direzione. Questo è il lavoro di lungo termine che vogliamo fare, in collaborazione con altri movimenti”.
Il transfemminismo come pratica trasformativa quotidiana
Un aspetto interessante che emerge dalle parole dellә attivistә è la capacità del transfemminismo di creare una solida giuntura tra la sfera collettiva e quella personale. “Nel quotidiano, il transfemminismo mi ha insegnato la sorellanza”, spiega Chloé. “Disimparare la competizione, in generale ma soprattutto fra donne e entità femminilizzate, e riuscire a scoprire questi rapporti profondi, aperti, di cura reciproca e di sostegno è stata per me una forza immensa, soprattutto crescendo in una società che dà centralità alla relazione romantica. Per me, essendo etero, significa dare priorità ad una relazione con un uomo. Trovare invece questa profondità nella relazione fra sorelle è sicuramente stato un cambiamento enorme nella mia vita”.
“In un senso ancora più profondo”, continua Chloé, “riconoscere che all’origine della sofferenza e della disuguaglianza ci sono dinamiche di dominio strutturali, significa poi cercare modi di stare assieme e di agire che non riproducano quelle stesse dinamiche. Quando si metabolizza questo modo di pensare tutto cambia, sia sul piano politico e collettivo che su quello individuale: si comincia a riflettere su come ci relazioniamo con noi stessә, con le altre persone e con il mondo circostante. Ci si comincia a decostruire.”
“Io faccio parte della categoria privilegiata che domina il pianeta: sono un maschio etero bianco cisgender, e l’analisi transfemminista, che spiega l’interconnessione delle cose a livello globale e sistemico, mi porta a sentire tutta la responsabilità che questo comporta”, aggiunge Ivan. “Sono consapevole del mio posizionamento all’interno della gerarchia, e quindi mi chiedo spesso: che ci faccio qua? Come mi comporto con le altre persone? Come posso usare il mio privilegio per cambiare le cose?”.
Ripoliticizzare l’8 marzo, e non solo
La richiesta principale su cui al momento Bruciamo Tutto si sta concentrando è la modifica del Reddito di Libertà, una misura già esistente che dovrebbe idealmente facilitare l’uscita da situazioni di violenza domestica. Secondo lә attivistә, questo strumento presenta parecchie lacune, fra cui fondi del tutto insufficienti e un’applicazione che esclude categoricamente identità transgender. Con l’aiuto di altri movimenti e professionistә che si occupano di violenza di genere, Bruciamo Tutto sta elaborando una versione migliorativa della misura. Parallelamente, utilizza la strategia delle azioni nonviolente per tenere alta l’attenzione pubblica su temi che riguardano la violenza e l’oppressione di genere, cercando di stimolare l’interesse e la partecipazione dellә cittadinә. Nell’arco di un anno, le azioni organizzate sono state 22 e hanno coperto varie città italiane; alcune azioni particolarmente spettacolari, che hanno visto l’utilizzo di vernice rossa in luoghi d’interesse culturale, hanno richiamato l’attenzione di stampa nazionale ed estera.
“Per noi è necessario fare quel passo in più per portare nel quotidiano la voce che teoricamente si dovrebbe portare nelle piazze dell'8 marzo”, spiega Noemi. “Le azioni che organizziamo non sono legate a determinate date o ricorrenze specifiche proprio perché deve essere una cosa continua: per le persone che lo fanno, come una forma di partecipazione a qualcosa che si estende al di là di una giornata sola; per chi passa e guarda, invece, serve a ricordare che il problema della violenza di genere è quotidiano e ha radici profonde, sistemiche, e non può essere debellato soltanto con una giornata di mobilitazione”.
Nell’ottica di un continuum che sia in grado di trascendere i confini dell’8 marzo, Chloé riprende l’idea degli scioperi transfemministi lanciati dalla rete Non Una di Meno: “Penso che quella dello sciopero sia una pratica molto potente per rendere visibile tuto il lavoro di cui si fanno carico le identità femminilizzate. Non è semplicemente uno sciopero dal lavoro produttivo ma anche dal lavoro di cura, dal lavoro riproduttivo, da ciò che in qualche modo il sistema capitalista patriarcale si aspetta incondizionatamente da identità femminilizzate. Lo sciopero serve a riacquistare potere evidenziando qual è effettivamente il contributo di un gruppo specifico alla società e quali sono le conseguenze se quel contributo viene a mancare”.
“L’8 marzo deve essere una giornata di rabbia”, dice Ivan. “Non una celebrazione, ma una giornata di picco, di visibilità, in cui attirare l’attenzione anche di chi normalmente non si occupa o non si interessa di certi temi. Deve essere la base di partenza da cui poi alzare l’asticella, di giorno in giorno. Il lavoro dal basso non si deve mai fermare: bisogna parlare con le persone, parlarne tanto, anche quando pensiamo si tratti di una banalità. È l’unico modo per instillare dubbi e spunti di riflessione”.
“Al di là dell’impegno collettivo, nel quotidiano dobbiamo imparare ad essere più antipaticә”, conclude Noemi. “Dobbiamo esprimerci quando vediamo qualcosa che non va, cercare di dialogare per disinnescare determinati meccanismi di violenza, anche le semplici battute o atteggiamenti machisti e discriminatori da parte di amiche e amici. Dobbiamo far notare queste cose, denunciarle, a costo di risultare pesanti. È l’unico modo per cominciare ad invertire il processo di normalizzazione”.