Marzo 20, 2024
Giustizia Sociale
Femminismo di periferia, antispecismo e politica: una conversazione con Martina Micciché
La voce di Martina Micciché, intervistata da Michela Grasso e Chiara Pedrocchi
Intervista a Martina Micciché, scienziata politica, scrittrice e fotoreporter, ha da poco pubblicato il suo primo libro “Femminismo di Periferia”, (Edizioni Sonda) un saggio dedicato all’analisi di ciò che sta ai margini della società.
D: Quando ti sei scoperta femminista e quando anti specista?
R: Ricordo l'ultimo giorno in cui ho formulato un pensiero non femminista, dopo aver letto il libro “Sesso Inutile” di Oriana Fallaci dove l’autrice spiegava come la sua sfida fosse quella di poter camminare in un mondo fatto da uomini, e che lei non vedesse questo mondo come un problema. Leggendolo, mi sono detta: “è una sfida: alcune donne possono farcela, altre no”. Diventare femminista è stato un processo, un ragionamento collegato alla scoperta di cosa sia effettivamente il potere e di come funzioni il nostro sistema. Per me è arrivato dall’esterno, è difficile che il discorso femminista arrivi nei quartieri come il mio dove non c'è mai stata una libreria. Senza liberie, assemblee, gruppi di dialogo, come si arriva a un ragionamento femminista? Io ho avuto la fortuna di incontrare una persona nel mio quartiere, che faceva discorsi di questo tipo, cosí come la fortuna di aver frequentato un’università dove alcuni corsi di sociologia, pensati per dare una visione complessiva della disuguaglianza, sono stati illuminanti.
Sono diventata antispecista guardando un video di una persona che raccontava il suo percorso antispecista, iniziato con la scoperta dell’esistenza di mucche sempre gravide, per garantire la produzione di latte. Questo mi ha portata a studiare le procedure e le immagini dietro alla produzione di prodotti animali. Ciò che mi ha fatto dire “da oggi la mia vita cambia” è stato sapere che la persona in quel video era un'attivista femminista, sopravvissuta a una violenza sessuale. E lei stava facendo un ragionamento di vicinanza, di comunanza e sorellanza con quello che subiscono le compagne non umane.
D: Il libro che hai appena pubblicato si intitola, “Femminismo di periferia", puoi definire la periferia e nello specifico il femminismo di periferia?
R: La periferia è tutto quello che viene considerato margine. All'interno del mio libro si gioca molto su questo concetto, perché non vuole essere una rivendicazione connessa solo alla dimensione urbana, ma a tutto quello che è periferia sotto vari punti di vista. Le nostre città sono uno spaccato di come abbiamo organizzato il sistema mondo: ci sono centri meravigliosi e ricchi, e periferie che permettono questa ricchezza, senza nemmeno sapere quanto tutta questa ricchezza venga estratta da loro. Il femminismo di periferia vuole rivendicare il femminismo intersezionale, dalla dimensione urbana a quella globale. Si tratta quindi di un “approccio dei margini”: rivendicato, rabbioso, ferito, perché i margini sono massacrati ogni giorno.
D: Cosa ha a che fare l’antispecismo con tutto questo?
R: Il discorso antispecista fa parte dell’intersezionalità: è connesso alla questione di classe, alle dinamiche razziste e coloniali, alla periferizzazione urbana. Se pensate a una qualsiasi città e agli animali che la abitano, noterete, per esempio, l'assenza di selvatici e la prevalenza dei domestici. Animali che hanno un destino precisamente deciso dall’essere umano, “liberi” o prigionieri secondo i nostri termini. Gli animali domestici non hanno un destino di morte programmata, ma spesso lo hanno di nascita programmata; vivono nelle nostre case per svolgere una funzione. Invece, gli animali domestici da reddito, chiusi negli allevamenti, nascono in base a esigenze di produzione e vengono immediatamente vessati, discriminati in base ai genitali. Se sono femmine possono essere destinate all’uso riproduttivo, per continuare la macchina dell’inseminazione forzata, della separazione dai propri figli. Se sono maschi vengono mandati direttamente al macello. Questi allevamenti, con i loro miasmi e esternalità, in che spazi si trovano? In grandi spazi fuori dalle città, visti solo da chi deve attraversarli per lavoro. Ambienti terrificanti, dove spesso lavorano persone in situazioni precarie e senza altre possibilità. Ho deciso di raccontarlo nel mio libro, per non escludere una parte così fondamentale della lotta contro le diseguaglianze.
D: Com’è nato questo libro?
R: Leggendo molti libri femministi mi sono resa conto della mancanza di alcuni temi. Non perché manchi la volontà di raccontarli, ma perché chi li ha scritti non aveva una chiave di lettura che rappresentasse tutti quegli ambienti che non sempre trovano spazio editoriale. Parlare di determinate cose non è semplice, spesso le case editrici hanno delle esigenze di vendita. Questo mi faceva arrabbiare, io ero una di quelle persone che voleva scappare dal proprio essere di periferia, volevo essere considerata diversa.
Poi, come persona con diverse identità, oppresse in maniera differente, ho fatto questo percorso in diverse direzioni e ho capito che volevo mi venisse perdonata la mia identità di persona di periferia, proveniente dalla Comasina, più che la mia identità sessuale o di genere. Notando queste assenze nella letteratura femminista, mi sono chiesta perché ci si dimenticasse di quello spazio. La mia rabbia è montata al punto di dire “provo a scrivere un libro, poi se trovo qualcuno che lo vuole pubblicare, tanto meglio”.
D: Chi vorresti leggesse il tuo libro?
R: Inizialmente, avevo il timore che potessero leggerlo solo persone che hanno attraversato periferie come la mia. Vedere la periferia analizzata in un certo modo, vedere la propria vita messa sotto un vetrino, sezionata e spiegata è come ricevere un pugno, è difficile. Ma l’ho scritto anche con la speranza che potesse essere letto da chiunque avesse interesse in questo argomento, compreso chi non ha mai sentito parlare di femminismo. Nel libro ci sono varie spiegazioni di concetti affinché sia accessibile a tutti, non solo a chi ha già approfondito questi temi. L'ho scritto pensando a tutte quelle persone che si stanno interessando a un mondo diverso, possibile, e spero così di poter dare un contributo di valore.
D: Quali sono secondo te alcune soluzioni per mettere le periferie al centro della narrazione?
R: Noi possiamo fare tantissimo, a partire dall'ascolto, una pratica femminista straordinaria, e non intendo l’ascolto solamente come pratica uditiva, ma come un porsi nei confronti dell'altro per riconoscerlo e ricevere la sua esperienza. Questa è una pratica che manca totalmente nella cultura di massa e nelle nostre Istituzioni. L’ascolto aiuta a decostruire pezzo per pezzo ogni forma di centralismo e verticalismo, per costruire una società nuova. Tutto quello che riguarda le nostre società è un discorso di riconoscimento. Nel momento in cui la massa globale sceglie di smettere di riconoscere il valore di alcuni elementi, quegli elementi non hanno altra scelta che cambiare. È un lavoro difficile e alcuni non soggetti, come per esempio le multinazionali, non potrebbero farlo, non possono vivere in un mondo senza centro. Si arriverà a un punto di non ritorno con la crisi climatica, per cui o si cambia o si cambia. Ma il terreno fertile per cambiare la situazione attuale c'è, le alternative ci sono e noi siamo pronti.
D: Nel tuo libro tracci una mappa dell’ecosistema di organizzazioni femministe impegnate nel mutuo aiuto intersezionale, come contribuire e rafforzare questa rete?
R: C’è un’idea, lo spurgo dell’ideologia capitalista, per cui noi non possiamo fare niente, per cui le nostre azioni non hanno un vero valore e soprattutto per cui le nostre differenze ci rendono divisi. Non è vero, noi possiamo essere gruppi, collettivi, in grado di cooperare e creare ponti, contaminandosi costantemente in un processo di crescita e dialogo. Spesso si fa fatica a dialogare, ma nella geografia degli ecosistemi transfemministi il dialogo esiste, anche conflittuale. L’azione più importante che fanno questi gruppi è proprio quella del far rete, del creare strade alternative molto solide. E noi possiamo avere la fortuna di inciamparci, oppure di cercarli attivamente e parteciparvi. Dobbiamo aggregarci per far sì che queste realtà non siano più delle piccole isole che vivono separate e resistono, ma che questa resistenza diventi la nostra esistenza collettiva.
D: Nel tuo libro la città e l’organizzazione dello spazio assumono un valore politico, ti va di spiegarci in che modo la città è politica?
R: Io non riesco a vedere nulla che non sia politico, per me ogni gesto, ogni azione, è politica. Credere che non lo sia è frutto di quella narrazione di sistema che ci vuole depotenziare, per farci credere di essere dei singoli individui staccati dalla comunità. Le città, come tutto, non sfuggono dalle logiche politiche. Questo perché per esempio, l’architettura che le compone è strutturata e pensata sulla base di unico tipo di essere umano: uomo, bianco, abile, benestante, etero. Nonostante rappresenti un percentile minore della popolazione umana, le città sono costruite idealmente per lui. Questo succede perché la politica ha dei valori concreti, e l’architettura ne è a sua volta un riflesso concreto, così come lo é l’allocazione o la sottrazione delle risorse in uno spazio urbano. Per portare la politica al centro basta ricordarsi semplicemente che noi stessi e tutte le nostre azioni sono politiche.
D: Quanto, secondo te, la mancanza di infrastrutture influenza le scelte e i pensieri dei singoli?
R: Tantissimo. Se una persona non può attraversare uno spazio, non può avere quella determinata esperienza. Se non può prendere i mezzi pubblici, non può raggiungere determinati posti. Questo è tragico, perché si tratta di azioni che inevitabilmente influenzano i percorsi di vita di una persona, ridotti sempre di più a spazi microscopici. Pensate all'accessibilità degli spazi urbani e a cosa vuol dire attraversare Milano per le persone neuro divergenti, spazi impestati di pubblicità, rumori forti, caotici. Di conseguenza quella persona si troverà in difficoltà e cercherà meccanismi di sopravvivenza, evitando determinati spazi. Oppure, l’esperienza di una persona socializzata e percepita come donna che deve attraversare uno spazio non illuminato. Questo significa avere più paura di quanta se ne avrebbe con uno spazio illuminato, quindi significa evitarlo, non uscire dopo una certa ora.
D: Pensi che l’intersezionalità sia effettivamente applicata dai vari movimenti oppure ci siano ancora una gerarchia delle lotte?
R: Credo ci sia ancora una forte gerarchia derivante dalla nostra educazione. Lo vedo con l’antispecismo, spesso messo all’ultimo posto, pur essendo ugualmente importante come lotta. Ma il dialogo transfemminista ha il potere di trasformare i punti di divisione, in spazi di incontro. Ovviamente è difficile ma ci sono spazi già intersezionali, ad esempio Ippoasi, un luogo che non solo è un rifugio antispecista, ma anche uno spazio transfemminista. E poi è uno spazio di cura, sacro e inviolabile. Io vorrei vivere così, in ogni luogo che attraverso.
D: Quale modello potrebbe sostituire il capitalismo e il centralismo?
R: Mi considero anarco femminista, socialista, antispecista e attraversando spazi che ricalcano questo pensiero, penso che il modello migliore sia quello del transfemminismo antispecista. Questo è un modello politico alternativo, orizzontale, mutualista, pensato per l’integrazione di tutti coloro che ne fanno parte, dove nessuno ha più potere di altri.
Letture consigliate per femminismo e antispecismo:
“Femminismo per il 99%” di Cinzia Arruzza
“Espulsioni” di Saskia Sassen
“Cospirazione animale” di Marco Reggio
“Afroismo”, Sorelle Ko
“Carne da macello, la politica sessuale della carne” di Carol Adams
“Paura del pianeta animale” di Jason Hribal
“Animali in rivolta”, di Sarat Colling