Luglio 26, 2022
Giustizia Sociale
Diventare genitori in Italia: mission impossible
Approfondimento di Michela Grasso, SPAGHETTIPOLITICS
La situazione della natalitá in Italia ha raggiunto livelli cosí bassi da arrivare a preoccupare persino il multi-miliardario Elon Musk. «Se l'Italia non fa più figli si estinguerà», così ha detto in un tweet il 24 Maggio 2022. Per qualche giorno sui media, il tema della natalità è stato al centro dell'attenzione, per poi svanire di nuovo con la stessa rapiditá con cui era emerso. Nel 2021 in Italia le nascite sono calate dell'1,3% rispetto al 2020. Per la prima volta nella storia italiana l'ISTAT ha registrato un numero inferiore alle 400.000 nascite, un calo del 31% a confronto del 2008, l'ultimo anno "d'oro" dell'aumento demografico. Il calo della natalità, è una conseguenza diretta della disuguaglianza economica ma anche e soprattutto di genere.
Föräldrapenning in Svedese significa "congedo parentale", un termine che sicuramente gli Svedesi conoscono bene, avendo uno dei tassi di natalitá più alti in Europa (sebbene in calo), 1.7 bambini per donna. Alla nascita di un figlio, in Svezia i genitori hanno diritto a 480 giorni di congedo da dividersi tra loro. E non solo, di questi giorni, 90 sono riservati per ciascun genitore, per incoraggiare entrambi a passare tempo con il bambino. I primi 390 giorni, vengono pagati all'80% del proprio salario, con una diminuzione per il tempo rimanente a 180 corone svedesi al giorno (17 euro). In Italia il congedo parentale viene diviso tra congedo facoltativo e congedo obbligatorio. Per la madre, il congedo obbligatorio arriva ai 5 mesi, pagati all'80%, per il padre 10 giorni pagati al 100%. Il congedo facoltativo arriva invece a 11 mesi, pagati al 30%, da dividersi tra i due genitori. Se guardiamo alla differenza tra le due nazioni, possiamo notare che in Svezia, il 44% dei papà prende il congedo parentale, in Italia, solamente il 10%.
Francesca Pertile ha 40 anni, vive in Italia, sul lago Maggiore ma lavora in Svizzera come terapista, negli ultimi sette anni ha avuto tre figli: Rachele (6), Pietro (4) e Marco (1). In Svizzera, la situazione del congedo parentale è forse ancora peggio, Francesca ha avuto diritto a solo quattordici settimane di maternità. «Se vuoi prendere settimane aggiuntive, vengono contate come malattia. È ironico che il bambino venga visto come un infortunio» racconta. Pur vivendo in Svizzera, Francesca porta con sé una prospettiva interessante, considerato che suo marito vive e lavora in Italia. «In Svizzera si può decidere, insieme ai datori di lavoro, quanto si può lavorare in percentuale. Per esempio, io adesso lavoro il 30% delle ore standard», spiega, «ammetto di sentirmi tagliata fuori dal mio ambiente lavorativo, io ho fatto la scelta di voler passare del tempo insieme ai miei figli, e questo vuol dire che lavoro meno. Per esempio, torno prima a casa dal lavoro, per stare insieme, cucinare etc.. e quindi vuol dire che mi capita di perdere delle riunioni o altri meeting e, di conseguenza, anche il mio avanzamento di carriera viene limitato».
Davide Grasso, 42, è impiegato in un'azienda di trasporti su rotaia e marito di Francesca. Davide a luglio prenderà alcune settimane di congedo parentale facoltativo per passare del tempo con i bambini al mare. «Al lavoro non è ben visto prendere il congedo parentale, principalmente perché prendere tempo insieme ai tuoi figli significa limitare la propria produttività sul lavoro» racconta a Voice Over Foundation, «Per esempio, quando torno a casa la sera e sono con i bambini, non ho il tempo materiale di rispondere alle mail di lavoro o ai messaggi, e questo vuol dire essere meno presente, nonostante io non dovrei nemmeno lavorare in quelle ore». Parlando con Francesca e Davide si capisce che la carriera di entrambi sia stata toccata dalla nascita dei loro figli. Tutti e due ci tengono a ribadire che questa è stata una loro scelta e che, senza la sicurezza economica che dà un buon lavoro, forse non si sarebbero potuti permettere di avere tre bambini.
Dal momento in cui il congedo parentale viene visto come un freno per la carriera, non stupisce che l'Italia sia l'ultima in Europa per l'occupazione di donne con figli (e penultima per donne senza figli). Ma è interessante notare come in tutti i paesi europei i padri con figli siano il gruppo che subisce meno disoccupazione. Una situazione alla rovescia insomma, dove i due genitori si ritrovano ai due estremi. Sicuramente in gioco ci sono diverse dinamiche. Quella più superficiale porta a dire che, lavorando meno la madre, il padre deve lavorare di più, e quindi è spinto a cercare un'occupazione che possa mantenere la famiglia. Andando a fondo, si deve cercare di capire il perché di questa scelta. Perché si dà per scontato che sia la madre a dover smettere di lavorare? In gioco, c'è la cultura italiana "della maternitá", dove le donne vengono viste come realizzate solo quando diventano madri. Cosí si segue un modello di famiglia tradizionale, quello dove il padre è il "breadwinner" ovvero, colui che porta il pane a casa.
Andando ancora più a fondo, si può arrivare al livello dove la disuguaglianza di genere va a intrecciarsi con il sistema economico in cui viviamo. Un esempio che calza a pennello è quello di Elisabetta Franchi, che nel mese di maggio ha spopolato sul web per alcune frasi sulle donne lavoratrici: "Assumo donne solo over 40, così possono lavorare h24". Frasi come queste presentano un chiaro sessissimo e ci mettono di fronte alla realtà dei fatti: in Italia si pensa ancora che i figli debbano essere responsabilità esclusiva della madre. E non solo, dimostrano altresì un'ossessione con la produttivitá. Se Francesca dice che si sente esclusa dal luogo di lavoro, in quanto lavorare part-time è visto "male", allo stesso tempo non ha davvero un'altra scelta se vuole continuare a passare del tempo con i suoi figli. E così Davide, che afferma come il congedo di paternità sia visto male sul lavoro, non viene invogliato a prenderlo nella sua interezza. La chiave sta nel concetto di produttivitá: viviamo in una società dove le persone vengono valutate in base al proprio lavoro, alle ore che spendono "producendo" qualcosa. Donne e uomini subiscono l'impatto di questa mentalitá in maniera diversa. La donna incinta, o con bambini, viene vista negativamente perché sicuramente dovrà prendersi del tempo per stare a casa, tempo che verrà sottratto alla produzione, e quindi alla società. Meglio quindi lasciare spazio a chi non ha figli, e può sempre essere disponibile. «Quando sei una donna con bambini, vieni sminuita sul posto di lavoro, subisci uno stigma. Se dici qualcosa ti trattano come "quella che è una mamma", il peso della famiglia ricade su di noi», racconta Francesca. Al contrario, gli uomini italiani, quando hanno figli, lavorano di più, proprio perché la società gli assegna questo ruolo. Lavorando di più, hanno anche possibilità di proseguire nella propria carriera e aumentare i propri guadagni, e qui si allarga sempre di più il "gender pay gap". In Italia, a cinque anni dalla laurea, gli uomini guadagnano il 20% in più delle donne, e ricoprono ruoli dirigenziali più frequentemente.
«L'anno scorso una collega è venuta in ufficio a salutarci piangendo, era il suo ultimo giorno di lavoro. Si era trovata costretta a dover dare le dimissioni, voleva lavorare ma non sapeva a chi lasciare il figlio nato da poco», racconta Davide. «In aggiunta, se una donna dà le dimissioni entro il primo anno dalla nascita del figlio, può ricevere la disoccupazione. La mia collega avrebbe voluto darsi più tempo per trovare una soluzione ma i giorni stavano per scadere e rischiava di trovarsi disoccupata, senza un'entrata fissa e con un bambino a cui badare».
Le problematiche legate al diventare genitori in Italia sono tantissime ed è incredibile vedere come il peso della famiglia ricada quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Una donna in Italia svolge 5 ore di lavoro non retribuito al giorno, si tratta del cosiddetto "lavoro invisibile": prendersi cura dei bambini, pulire la casa, aiutare i genitori anziani e via dicendo. Questo numero scende a 1 ora e 48 minuti per gli uomini. In Italia, il 21% delle donne in età lavorativa non lavora o non ricerca lavoro a causa del "lavoro di cura non retribuito" che devono svolgere all'interno della famiglia.
In un mondo dove emanciparsi equivale all'avere denaro, le donne restano indietro, a guardare il divario tra loro e gli uomini allungarsi sempre di più. Per questo la nascita di un bambino dovrebbe essere un momento di gioia, ma spesso in Italia diventa motivo di preoccupazione.
Adottare un nuovo approccio nei confronti delle famiglie è tuttavia realizzabile. Un passo essenziale è il non dare per scontato che tutti abbiano la possibilità di lavorare gratuitamente in casa, mamme, papà ma anche nonni. Gli asili nido dovrebbero diventare accessibili a tutti, in termini di costi e posti. Poi, è necessario dare incentivi di natura economica a chi desidera iniziare una famiglia, riformando anche quel sistema che ancora non riconosce le coppie LGBTQ+ come meritevoli di avere dei bambini. Si potrebbe iniziare a pagare il lavoro di cura non retribuito, considerato che al momento in Italia tante coppie sono costrette a scendere a compromessi per avere figli: "tu smetti di lavorare per stare con il bambino e io lavoro il doppio per portare a casa qualcosa in più". Il lavoro part-time andrebbe de-stigmatizzato, non c'è infatti niente di male nel lavorare meno ore, e questo non dovrebbe essere una scusa per escludere le persone dal luogo di lavoro.
Le possibilità sono tante, e a parte queste idee, a essere riformata dovrebbe essere l'intera società italiana, partendo dalla visione della famiglia e arrivando a quella del lavoro. Chissà, se un giorno in Italia si smetterà di utilizzare la parola "mammo" per parlare di un uomo che si prende cura dei figli, e si userà solamente un normalissimo "papà".