Marzo 10, 2025
Giustizia Sociale
Diritto alla critica, non shitstorm. Uno strumento di opposizione alle narrazioni dominanti
Approfondimento di Dalia Ismail
Con il termine shitstorm si intende il fenomeno per cui un numero elevato di persone esprime il proprio dissenso nei confronti di un individuo o di un’organizzazione attraverso una tempesta di commenti, critiche, insulti e ironie sui social media. Le shitstorm sono una delle dinamiche più violente dell’era digitale: in poche ore, un’ondata di attacchi può travolgere chiunque, con conseguenze devastanti.
Il caso di Giovanna Pedretti, ristoratrice in provincia di Lodi, ha riportato al centro il dibattito sull’impatto delle shitstorm. Dopo aver risposto a una recensione contenente commenti discriminatori verso persone omosessuali e con disabilità, ha inizialmente ricevuto ampio sostegno. Tuttavia, quando sono emersi dubbi sull’autenticità della recensione – ipotizzando che fosse stata creata ad arte per pubblicizzare il locale – la narrazione è cambiata: dalle lodi si è passati a critiche e accuse di strategia di marketing ingannevole. La pressione mediatica ha avuto conseguenze tragiche: due giorni dopo l’ultima intervista in cui si difendeva dalle accuse, Pedretti è stata trovata morta nel fiume Lambro. Questo episodio ha messo in evidenza il lato più crudele delle shitstorm che, quando colpiscono persone comuni e vulnerabili, senza strumenti per difendersi, diventano una punizione sproporzionata e incontrollabile.
Tuttavia, ridurre l'intero fenomeno a semplice odio collettivo sarebbe una lettura parziale. Se nel caso di Pedretti ci si è trovati di fronte a una dinamica distruttiva fine a sé stessa, quando il bersaglio è una figura pubblica con potere mediatico, la situazione cambia: la shitstorm può diventare una forma di resistenza contro narrazioni dominanti percepite come ingiuste. Questo non significa che ogni attacco sia giustificato, ma impone una riflessione sulle cause di queste ondate di indignazione. Il problema non è solo la violenza della shitstorm, ma il contesto che la genera: perché alcune voci vengono amplificate e altre messe a tacere? Perché non si dà spazio, negli stessi media tradizionali che pubblicano gli articoli che scatenano ondate di indignazione, ad una replica ben argomentata? La maggior parte delle volte, il diritto di rispondere in modo totalmente opposto e ben argomentato non viene garantito.
Questa dinamica diventa evidente quando si analizzano casi specifici in cui la shitstorm non è solo un attacco personale, ma una contestazione del ruolo che certe figure pubbliche ricoprono nel dibattito mediatico. Due esempi recenti, quelli di Vera Gheno e Cecilia Sala, mostrano come la rabbia collettiva possa nascere dal rifiuto di narrazioni percepite come faziose, razziste e privilegiate.
Vera Gheno: la banalità dell’intellettualismo
Recentemente, la linguista Vera Gheno e il quotidiano Domani sono stati travolti da un’ondata di critiche sotto un post di Instagram che riportava un estratto di un suo articolo. Gheno ha denunciato gli insulti ricevuti, mentre Domani ha cancellato numerosi commenti, definendoli “pretestuosi”, poiché l'articolo tratta di linguistica, non di geopolitica.
L’articolo in questione si concentra su un’apparente analisi linguistica: se sia più corretto dire "soldate" o "soldatesse" per riferirsi alle donne nell’esercito, partendo dall’esempio di quello israeliano. Tuttavia, affrontare questo tema senza considerare il contesto in cui si inserisce è già una presa di posizione politica. Parlare di parità di genere nell’esercito israeliano, come se fosse un mestiere qualunque, senza menzionare il ruolo attivo di queste soldate nei crimini contro i palestinesi significa normalizzarne l’operato. Invece di analizzare il linguaggio disumanizzante usato per descrivere i palestinesi nei media italiani - questione linguistica molto più tragica e urgente - l’articolo si sofferma su un dettaglio che finisce per distorcere le priorità, rafforzando un dibattito sulla Palestina che esclude il punto di vista palestinese.
Hannah Arendt parlava della"banalità del male" per descrivere come individui apparentemente comuni, eseguendo meccanicamente il proprio lavoro, finissero per partecipare a sistemi di oppressione. Gheno non è certo un Eichmann, ma il suo articolo rappresenta un caso di banalità dell’intellettualismo: il privilegio di potersi concentrare su questioni formali ignorando il quadro più ampio e l'ingiustizia reale. Il fatto che Domani abbia eliminato numerose critiche, sostenendo che l’articolo tratta di linguistica e non di geopolitica, dimostra quanto sia diffusa questa forma di complicità strutturale.
La reazione contro Gheno non è stata un’ondata di odio, ma una contestazione del privilegio di chi può parlare senza affrontare le conseguenze del proprio discorso. Se il giornalismo fosse realmente equo, se desse spazio a chi denuncia in modo onesto il genocidio in corso in Palestina, probabilmente questa shitstorm non sarebbe esplosa. Ma il problema è che il dibattito pubblico è già sbilanciato: alcune narrazioni vengono difese, mentre altre sono sistematicamente escluse.
Cecilia Sala: il doppio standard mediatico
Nel dicembre scorso, la giornalista Cecilia Sala è stata arrestata in Iran e tenuta in isolamento per ventuno giorni. La notizia ha scatenato un’ondata di solidarietà trasversale. Tuttavia, mentre Sala veniva celebrata come simbolo della libertà di stampa occidentale minacciata dal regime iraniano, 205 giornalistə palestinesi venivano uccisə da Israele, senza che la stampa occidentale dedicasse loro la stessa attenzione.
In contrapposizione a tutto ciò, molte persone hanno scelto di non partecipare a questa santificazione mediatica non per mancanza di empatia, ma per rifiuto di un meccanismo che valorizza alcunə giornalistə mentre ne ignora altrə. In aggiunta, le critiche sono anche state scatenate dal fatto che Sala ha avuto un ruolo attivo nella disinformazione sul genocidio in Palestina, contribuendo alla criminalizzazione della resistenza palestinese e alla diffusione di varie fake news, come quella sul bombardamento dell’ospedale Al-Ahli di Gaza che sarebbe stato causato da un razzo palestinese, anziché da un attacco israeliano. Sala non ha mai rettificato, nonostante il dovere deontologico di farlo.
L’ondata di critiche nei confronti di Cecilia Sala non è stata un attacco irrazionale, ma una reazione al doppio standard mediatico e alla narrazione asimmetrica che ha caratterizzato questi mesi. Mentre Sala veniva giustamente celebrata come vittima dai giornali occidentali, centinaia di giornalistə palestinesi venivano uccisə senza che quegli stessi media denunciassero con la stessa fermezza la repressione della libertà di stampa da parte di Israele. Come sottolinea Sara Manisera in un approfondimento per Voice Over, questa disparità di attenzione riflette un più ampio squilibrio nella difesa della libertà, in cui la libertà di stampa sembra valere solo quando riguarda chi è considerato “vicino” ai valori occidentali, mentre le voci dell'Altro restano invisibili e sacrificabili.
La shitstorm contro di lei è stata una forma di resistenza a questo meccanismo, un modo per dire che la libertà di stampa non può essere difesa solo quando riguarda chi sostiene la narrazione favorevole ai nostri interessi geopolitici, e che la propaganda genocidaria è un crimine, non un qualcosa da trascurare o considerabile come “libertà di espressione” o “opinione”.
Se il giornalismo occidentale fosse stato più equo, se avesse garantito spazio e credibilità a chi denuncia con onestà il genocidio dei palestinesi, probabilmente nessunə avrebbe sentito il bisogno di ribadire le responsabilità di Sala proprio mentre era una vittima. Ma il problema è che il giornalismo occidentale, invece di aderire ai principi etici della professione, ha sistematicamente censurato e screditato ogni narrazione alternativa a quella israeliana.
Il diritto alla critica come forma di resistenza a una narrazione parziale
Le shitstorm sono un fenomeno complesso, essendo condotto da esseri umani. Nel caso di Vera Gheno e Cecilia Sala, la shitstorm non è stata un semplice attacco personale, ma una contestazione del modo in cui il discorso pubblico viene costruito e imposto. Il problema non è se queste persone abbiano il diritto di esprimersi, ma il fatto che chi offre narrazioni opposte viene sistematicamente escluso o screditato.
Se le critiche avessero spazio in contesti che permettono un confronto più articolato, forse non verrebbero percepite (o trasformate) in una shitstorm. In passato, il dibattito tra intellettuali trovava spazio sui giornali e nelle riviste, permettendo repliche e controrepliche che davano respiro alle argomentazioni. Si pensi, ad esempio, al confronto tra Pasolini e Moravia, che si sviluppò attraverso articoli e lettere, o allo scontro tra Tiziano Terzani e Oriana Fallaci, che pur nella radicalità delle loro posizioni manteneva una dimensione di scambio. Oggi, invece, i social impongono velocità e semplificazione, con il risultato che anche una critica legittima rischia di apparire come un attacco violento. Questo genera una percezione polarizzata: chi riceve critiche le vive come un linciaggio, mentre chi le esprime spesso non ha lo spazio per argomentarle con la dovuta complessità.
La vera soluzione è garantire che tuttə abbiano davvero diritto di parola, ma questo diventa difficile in un contesto in cui il potere mediatico è concentrato nelle mani di pochi gruppi editoriali, economici e industriali. In Italia, ad esempio, l'imprenditore Urbano Cairo controlla RCS MediaGroup, uno dei maggiori gruppi editoriali italiani, che possiede importanti testate come Il Corriere della Sera, La Gazzetta dello Sport e altre.
Il Corriere della Sera, pur essendo una testata storica, è stato talvolta accusato di seguire linee editoriali influenzate dagli interessi economici e politici di chi lo controlla. Un altro esempio è Mediaset, l'impero mediatico di Silvio Berlusconi, che ha controllato gran parte delle emittenti televisive italiane e ha avuto un ruolo fondamentale nel panorama informativo e politico del paese.
Analogamente, il Gruppo GEDI, posseduto da Exor (la holding della famiglia Agnelli), rappresenta una delle principali concentrazioni mediatiche in Italia, possedendo testate come la Repubblica, La Stampa, Huffington Post e diverse emittenti radio.
La concentrazione del potere mediatico in poche mani riduce la diversità delle narrazioni, spingendo le voci alternative a cercare spazio sui social media. Tuttavia, l’ambiente digitale presenta limiti significativi, come la diffusione di fake news e la manipolazione dell’opinione pubblica, che contribuiscono ad alimentare superficialità e polarizzazione nel dibattito pubblico.
In questi casi specifici, il vero problema non è la shitstorm in sé, ma il sistema che rende impossibile un confronto equo. La soluzione non è reprimere le critiche, invocare una neutralità che non esiste o una solidarietà umana depoliticizzata. Perché la rabbia, prima di esplodere, è spesso il sintomo di un’ingiustizia più ampia.