Ottobre 07, 2024
Giustizia Sociale
Diritti umani e guerre occidentali: una relazione interdipendente
Approfondimento di Dalia Ismail
Gli attacchi letali attualmente condotti da Israele in Libano, che in un solo giorno hanno causato oltre 558 morti, tra cui 50 bambini, e più di 1800 feriti (nel momento in cui scriviamo il numero ha già raggiunto 1 640 morti, di cui 104 bambini, e 8 404 feriti) arrivano dopo un anno di genocidio in Palestina e ripetuti bombardamenti israeliani nell’intera regione, accompagnati da offensive dirette da parte di Stati Uniti e Regno Unito. Questi eventi rappresentano una delle pagine più oscure della storia contemporanea, caratterizzati da un numero inconcepibile di vittime in un periodo molto breve. La narrazione mainstream che accompagna la guerra contro gli arabi musulmani, rappresentando Hezbollah, Hamas e gli Houthi come terroristi e minacce per Israele e l'Occidente, serve a legittimare tali crimini, facendoli percepire, in fondo, come necessari.
Questa retorica, che giustifica la violenza sistematica, solleva interrogativi sulla moralità di molti personaggi pubblici che fanno della difesa dei diritti umani la propria bandiera, nonché sulle vere motivazioni che sottendono le azioni militari occidentali. In questo clima di brutalità e deumanizzazione, si inserisce il recente voto di Carola Rackete, nota ambientalista e attivista per i diritti umani e attualmente parlamentare europea nel gruppo parlamentare di sinistra, nonché simbolo della lotta contro i crimini perpetrati nel Mar Mediterraneo ai danni di chi tenta di raggiungere le coste europee. La sua scelta di sostenere la revoca delle restrizioni sull'uso delle armi occidentali da parte dell'Ucraina per colpire direttamente il territorio russo appare paradossale, soprattutto perché, se fosse per una reale difesa, si farebbe lo stesso con Palestina e Libano. Questo scenario mette in luce il profondo conflitto tra gli ideali umanitari e le dure realtà della geopolitica contemporanea, imponendo la necessità di una riflessione critica sulle modalità e le narrazioni che negli ultimi anni hanno accompagnato la difesa dei diritti umani in Occidente.
Il legame tra questi ultimi e la politica imperialista, ossia la volontà di estendere il proprio dominio politico, economico e culturale su altri territori, ha radici profonde. Questo rapporto risale all'internazionalismo liberale, una corrente di pensiero politico nata nel XIX secolo che promuove la cooperazione internazionale e la protezione dei diritti, ma che è stata spesso utilizzata per giustificare guerre imperialiste e occupazioni coloniali.
L'interconnessione tra guerra, interessi materiali e diritti umani ha reso sempre più difficile distinguere l'effettivo aiuto dalla strategia militare.
In un'epoca in cui le politiche e le narrazioni coloniali cambiano forma ma non sostanza, è essenziale riconoscere come le pratiche umanitarie si intrecciano con la violenza politica.
Solidarietà coloniale
Secondo l'articolo accademico The Geopolitics of Militarism and Humanitarianism dei docenti Killian McCormack ed Emily Gilbert dell'Università di Toronto, il militarismo non si limita alla presenza di forze armate, ma costituisce una rete di valori e pratiche che promuovono l'uso della forza come risposta a determinate crisi. Allo stesso modo, l'umanitarismo, principio etico di protezione delle persone in pericolo, pur apparendo come un ideale meramente altruistico, viene spesso utilizzato per legittimare azioni militari.
I discorsi umanitari possono, in effetti, autorizzare interventi militari, creando un’apparente coerenza tra aiuto e aggressione. Le operazioni militari, presentate come misure destinate a proteggere le popolazioni da minacce quali dittature, milizie considerate terroristiche o imposizioni religiose, sollevano interrogativi su chi realmente benefici di tali azioni e su quali vite vengano valorizzate rispetto ad altre.
Il diritto internazionale umanitario, secondo i due docenti, ha radici storiche profonde, ancorate nei concetti di protezione dei civili e dei prigionieri di guerra. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo campo giuridico è emerso con l’obiettivo di limitare gli effetti della guerra in nome dei principi umanitari. Vari ricercatori e analisti criticano il diritto internazionale umanitario, sostenendo che esso non si limiti a mitigare la violenza, ma piuttosto la gestisca e la regoli, specialmente nei contesti di conflitto.
L’introduzione di un “minimo umanitario”, concetto centrale nel diritto internazionale umanitario, stabilisce il grado accettabile di violenza attraverso limiti specifici, come il divieto di attacchi diretti ai civili e l’imposizione della proporzionalità nelle risposte militari. Questa regolamentazione non elimina il problema della violenza, ma la rende compatibile con le norme internazionali, conferendo una forma di legittimità a quelle azioni che, pur causando vittime civili, rispettano le regole stabilite.
La gestione della violenza attraverso il diritto internazionale umanitario crea dunque una sorta di compromesso morale che consente ai belligeranti di perpetrare atti di guerra, a patto che si rimanga entro i confini stabiliti. Ciò implica che le perdite umane siano considerate "accettabili" in determinate circostanze, e questo apre la porta a giustificazioni per l'uso della forza, anche quando causano gravi danni a civili e infrastrutture, come avvenuto in Palestina in questi mesi e in queste settimane in Libano.
Negli ultimi anni, si è assistito a un'accelerazione della militarizzazione delle pratiche solidali, con operazioni militari che hanno generato nuove crisi umanitarie, le quali coinvolgono direttamente anche gli Stati occidentali, come l’offensiva in Libia del 2011 e la crisi migratoria conseguente.
La responsabilità di proteggere
La responsabilità di proteggere (R2P) è un principio del diritto internazionale secondo il quale gli stati hanno l'obbligo di proteggere le proprie popolazioni da genocidi, crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Qualora non lo facciano, la comunità internazionale è giustificata a intervenire, anche militarmente, per garantire questa protezione. Questa dottrina è emersa come uno strumento fondamentale per giustificare l’aggressione militare del 2011 in Libia contro il regime di Muammar Gheddafi, con l'intento di proteggere i civili libici. Tuttavia, come evidenziato da Ilia Xypolia, docente di relazioni internazionali all'Università di Aberdeen, l'uso della R2P ha mostrato notevoli contraddizioni. L'intervento, supportato dalle risoluzioni ONU 1970 e 1973, ha portato a un cambiamento di regime, ma ha anche causato il crollo dell'ordine politico e sociale in Libia.
Xypolia critica l’applicazione della R2P, evidenziando come, dietro la retorica della protezione, si nascondano interessi geopolitici e dinamiche di potere volte a mantenere l'influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati in aree strategiche. Sebbene l’operazione sia stata presentata come una risposta umanitaria alla repressione di Gheddafi, essa ha in realtà alimentato instabilità e frammentazione politica nel paese.
La narrativa umanitaria che ha giustificato l'intervento ha trovato consenso non solo tra le forze di destra, ma anche in settori della sinistra, i quali hanno considerato il rovesciamento di Gheddafi come necessario per la salvaguardia dei diritti umani e della democrazia.
Il concetto di R2P riflette una visione gerarchica in cui i “civilizzati” hanno il dovere di salvare i “barbari” dalle loro tirannie. L'intervento in Libia ha causato enormi sofferenze e trasformato il paese in un campo di battaglia tra numerosi stati con interessi locali, oltre che tra fazioni armate, alimentando i flussi migratori verso l'Europa.
La posizione del centrosinistra italiano, che ha sostenuto l'aggressione militare per poi difendere i diritti dei migranti nei discorsi pubblici, rappresenta un chiaro esempio di questa contraddizione. Mentre si proclama solidarietà verso chi fugge da conflitti e persecuzioni, si ignora il ruolo dell'Occidente nella creazione di tali crisi e nella stipulazione di accordi con stati che violano i diritti umani. Questa logica di “salvataggio” dei pochi, dopo aver oppresso milioni nel Sud globale, perpetua un ciclo di sfruttamento e disuguaglianza. Si nega, quindi, la possibilità di una vera autodeterminazione per i popoli, creando una narrazione in cui l'Occidente si erge a salvatore, eludendo le proprie responsabilità storiche e contemporanee nelle dinamiche di potere che influenzano le vite di milioni di persone.
Il discorso meramente umanitario sull'immigrazione in Europa e i diritti umani violati negli Stati del Sud Globale è problematico, poiché tende a dividere l'opinione pubblica europea tra coloro che sostengono l'accoglienza dei migranti e quelli che si schierano per il respingimento. Questa dicotomia, sebbene apparentemente chiara, è superficiale e non affronta mai le questioni strutturali che alimentano l'emigrazione, come le politiche neocoloniali, i conflitti e le crisi economiche che ne conseguono. Il risultato è un dibattito che si concentra su chi gestisce meglio l’emergenza, chi ha un'etica più ammirevole, e non sui diritti delle vittime e sulla giustizia globale.