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ddl 1660
Dicembre 09, 2024
Giustizia Sociale

Ddl 1660: una svolta autoritaria contro il dissenso sociale

Approfondimento di Youssef Siher, ricercatore

Il nuovo disegno di legge “Sicurezza”, approvato lo scorso 18 settembre dalla Camera dei deputati e ora al vaglio delle commissioni del Senato in previsione di una sua votazione a metà dicembre, rappresenta un salto di qualità nella direzione della costruzione di un vero e proprio Stato di polizia in Italia. Questo disegno di legge - a prima firma dei ministri Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Guido Crosetto - infatti non è altro che l’ultimo di una lunga serie di decreti sicurezza bipartisan volti alla limitazione delle libertà e alla repressione del dissenso, con un focus prettamente ideologico su migranti e minoranze razzializzate. Un percorso che vede un momento cruciale nel 2017, con l’entrata in vigore dei cosiddetti decreti Minniti.


I decreti “Sicurezza” tra la fine degli anni '10 e l’inizio degli anni '20

I decreti Minniti (uno “Sicurezza” e uno “Migranti”) rappresentano il preludio all’attuale stagione politica orientata alla pacificazione sociale e politica del Paese. Questi provvedimenti mirano principalmente a restringere gli spazi di lotta sociale, attribuendo le responsabilità delle crisi economiche, politiche e sociali, e persino della violenza di genere, a una minoranza ritenuta pericolosa per il semplice fatto di esistere entro i confini dello Stato. Tale narrazione alimenta un clima di paura e terrore, funzionale alla richiesta politica di limitare ulteriormente le libertà personali in nome di una presunta maggiore “sicurezza”. Lo strumento di base è lo stesso del ventennio fascista: il razzismo istituzionale. Allora il “problema” erano gli ebrei e i comunisti, oggi le classi più emarginate e gli stranieri in senso largo (e gli arabi e i musulmani in senso stretto). Allora era l’antisemitismo, oggi l’islamofobia, ad alimentare l’ideologia dietro a questo tipo di politiche liberticide e autoritarie.

I provvedimenti principali adottati con le leggi che portano il nome dell’ex ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, sono stati l’introduzione del DASPO urbano (di fatto un divieto di accesso indirizzato ad una persona in alcune zone di un determinato Comune su ordine del Questore), l’abolizione del secondo grado di giudizio per i migranti che fanno ricorso contro il respingimento della domanda d’asilo, la riapertura e l’aumento del numero dei Centri di identificazione ed espulsione dei migranti (CIE, che nel 2017 hanno cambiato nome in Centri di permanenza per i rimpatri, CPR) e il raddoppio delle espulsioni degli immigrati irregolari (più di 17.000 solo nel 2016). I due decreti vanno quindi a braccetto, una strategia che da allora tutti i governi hanno usato per legare il tema della sicurezza a quello dell’immigrazione.


Del 2018 e del 2019 sono invece i due decreti “Sicurezza” gialloverdi, fortemente voluti dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, oggi vicepremier, con l’esplicita volontà di smantellare il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, penalizzando l’operato delle ONG che salvano vite in mare. Il decreto Salvini del 2018 limita la discrezionalità nella concessione della protezione umanitaria e introduce trattenimenti per identificare i richiedenti asilo fermati alla frontiera, amplia i reati che comportano il diniego della protezione e prolunga a 180 giorni il trattenimento nei CPR (dai 90 del decreto Minniti). Il decreto estende il DASPO urbano agli indiziati di terrorismo, autorizza l’uso sperimentale di taser per la polizia municipale, inasprisce le pene per occupazioni abusive di immobili e introduce l’uso di intercettazioni contro promotori e organizzatori di tali occupazioni.

Il cosiddetto decreto “Sicurezza bis”, entrato in vigore nel 2019, rafforza le norme per le manifestazioni pubbliche, aumentando la tutela delle forze di polizia. Inasprisce le sanzioni per l’uso di caschi o mezzi che ostacolano l’identificazione e introduce la reclusione da 1 a 4 anni per chi lanci razzi o oggetti contundenti. Prevede poi aggravanti per reati come violenza, resistenza a pubblico ufficiale, devastazione, saccheggio, danneggiamento e interruzione di servizi pubblici.

Il Ddl 1660, quindi, non fa altro che proseguire nel percorso che da anni vuole limitare gli spazi al dissenso e all’antagonismo sociale e politico in Italia, e lo fa colpendo le fasce più deboli e subalterne della società. Il nuovo disegno di legge, non a caso, è stato descritto come “il più grande e pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana” da Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone.


Ddl 1660: verso un sistema poliziesco di stampo fascista

Antigone e ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), in un documento presentato all’audizione alla Camera dei deputati, hanno spiegato che “le norme del disegno di legge governativo si ispirano a un modello di diritto penale di matrice autoritaria e non liberale che risponde ad una ben chiara matrice culturale e politica, di dubbia consistenza democratica”. Innanzitutto, il disegno di legge prevede misure restrittive sulle manifestazioni pubbliche e il dissenso, conferendo ampi poteri alle autorità locali e alle forze di polizia. Il Ddl consente poi anche la sospensione di diritti in situazioni di emergenza, oltre ad attribuire poteri per intervenire su individui e gruppi considerati pericolosi, tutte norme che richiamano le pratiche di emergenzialismo autoritario e di emarginazione degli oppositori tipiche del regime.


Tra le disposizioni più critiche del testo, che erodono principi fondamentali dello Stato di diritto, spicca però l’introduzione del nuovo reato di “rivolta carceraria”. Questa norma segna una profonda deviazione dal modello penitenziario repubblicano e costituzionale, richiamando le rigide disposizioni del regolamento fascista del 1931. Nel Ddl 1660, il reato di rivolta carceraria si configura come uno strumento di costante intimidazione verso l’intera popolazione detenuta, con il fine ultimo di trasformare i detenuti in corpi docili e obbedienti. Applicabile anche ai migranti reclusi nei CPR e nei Centri di accoglienza (CAS), la norma ripropone logiche oppressive simili a quelle fasciste, che imponevano ai detenuti di camminare in ordine, parlare a bassa voce e astenersi da canti, grida o reclami collettivi. Questo controllo stringente rivelava la volontà di annientare ogni forma di autonomia e libertà di espressione.


Fascismo=colonialismo

Il testo di legge attualmente in corso di approvazione rappresenta quindi una trasformazione profonda dello Stato italiano, spingendolo verso una dimensione sempre più simile a quella di uno Stato poliziesco. Questo mutamento di prospettiva, assimilabile a una struttura di tipo coloniale, si manifesta non solo con l’espansione delle misure punitive, ma trasformandosi in una strategia di gestione politica mirata a garantire la stabilità sociale. Le nuove misure sembrano indirizzarsi in modo particolare contro le fasce più vulnerabili ed emarginate della società, configurandosi come uno strumento di controllo sociale.


Gli stessi strumenti repressivi che il governo Meloni vuole adottare qui in Italia, con il silenzio dei maggiori partiti di opposizione, non sono altro che l’altra faccia della medaglia dello stesso sistema che opprime i popoli oppressi del Sud globale. Nel suo saggio Discorso sul colonialismo, lo studioso martiniquais Aimé Césaire spiegava, infatti, in modo chiaro che il fascismo e il nazismo non sono altro che l’applicazione della violenza coloniale entro i confini dell’Occidente. Quest’affermazione trova oggi un esempio lampante nella repressione coloniale sionista in Palestina. Israele, nel corso della sua storia, ha sviluppato un complesso apparato securitario e repressivo nei confronti della popolazione palestinese, giustificandolo in nome della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo. Questi strumenti, collaudati nel contesto coloniale, vengono successivamente adottati e adattati in altri contesti a livello internazionale.

Ad esempio, il sistema di sorveglianza di massa utilizzato per monitorare i palestinesi, basato su tecnologie avanzate come droni, software di riconoscimento facciale e controlli biometrici, è stato implementato in modo capillare nei territori occupati. Questo sistema non solo mira a prevenire rivolte e resistenze palestinesi, ma funge anche da laboratorio per l’industria della sicurezza israeliana, che esporta queste tecnologie e metodologie in tutto il mondo. Molte delle tecniche utilizzate per il controllo della popolazione palestinese, come la costruzione di muri, i posti di blocco militarizzati e le operazioni di polizia aggressiva, vengono trasferite e adattate in contesti occidentali per la gestione delle migrazioni, il controllo delle periferie urbane e la repressione delle proteste sociali. Un esempio emblematico è rappresentato dall’uso delle tecniche di “crowd control” e delle armi non letali, come i gas lacrimogeni e proiettili di gomma, testati sui manifestanti palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, che sono poi stati adottati da forze di polizia in Europa e negli Stati Uniti per gestire manifestazioni. La brutalità con cui vengono trattati i palestinesi non si limita quindi al loro contesto specifico, ma si inserisce in una più ampia dinamica di “esportazione” delle pratiche repressive che rafforzano gli apparati securitari a livello globale. Questo “effetto boomerang” è quindi evidente anche nelle strategie di militarizzazione interna adottate da molti Stati occidentali, che imitano i modelli sviluppati in Palestina da parte dell’entità sionista. I droni utilizzati per sorvegliare i quartieri poveri, le barriere erette contro i migranti e le tattiche di repressione dei movimenti di protesta mostrano una chiara influenza delle pratiche sioniste. In questo modo, la colonizzazione della Palestina diventa non solo un simbolo di oppressione, ma anche un laboratorio vivente per l’ideazione e la normalizzazione di un sistema globale di controllo autoritario.

Questa dinamica evidenzia come la repressione, originariamente concepita come strumento straordinario nei contesti coloniali, sia diventata parte integrante dell’impianto di controllo sociale e politico all’interno delle metropoli dell’Impero occidentale. In un mondo segnato da crescenti disuguaglianze e tensioni sociali, l’adozione di pratiche repressive coloniali nei contesti occidentali non fa altro che accentuare le discriminazioni sistemiche, rendendo la repressione una misura ordinaria e profondamente radicata nelle dinamiche di governo. Combattere in Italia contro un sistema che tenta in ogni modo di assuefare il popolo attraverso la retorica della paura e del terrore, per poi schiacciare le fasce più deboli, considerate estranee alla società e quindi dannose, significa proseguire la stessa lotta anticoloniale e antimperialista portata avanti dai popoli subalterni nel resto del mondo. Comprendere queste lotte come parti di un’unica battaglia, ponendole sul medesimo piano strategico, rappresenta un primo passo cruciale per l’identificazione del nemico comune.

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