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abolizionismo
Febbraio 17, 2025
Giustizia Sociale

Abolire la polizia: re-immaginare la sicurezza a partire dalle relazioni di cura

Approfondimento di Camilla Donzelli

A circa un mese e mezzo di distanza dalla morte di Ramy Elgaml, il quotidiano online Today ha pubblicato unbreve articolo in cui il direttore editoriale Fabrizio Gatti espone la propria analisi della vicenda che vede dei membri delle forze dell’ordine indagati per omicidio e depistaggio. Il pezzo, benché conciso, trabocca di passaggi controversi. Gatti scrive: “Far passare i carabinieri per presunti assassini è un azzardo. Perché fa credere a ragazzi senza legge come Ramy e Fares che sono loro gli eroi della periferia, vittime di un razzismo che, almeno in questo caso, non esiste”. E poche righe dopo, conclude: “Se ci sono delle vittime proletarie in questa storia, non sono certamente Ramy Elgaml e Fares Bouzidi, l'amico tunisino, che pur senza patente guidava uno scooter Yamaha T Max da 11 mila euro. Sono piuttosto i carabinieri. Nell'inseguimento hanno loro stessi rischiato la vita per uno stipendio di 1400 euro lordi al mese. Lordi. E ora, per qualche anno di processo, dovranno pure pagarsi l'avvocato, per difendersi dall'ingiusta vergogna di essere chiamati assassini”.

Il giornalista fa riferimento ad una generica classe lavoratrice e posiziona al suo interno i carabinieri coinvolti, definendoli “vittime proletarie”. La classe viene quindi rappresentata come una categoria monolitica, in cui non esistono differenze. Ma il proletariato non è una massa indistinta: al suo interno esistono gerarchie e rapporti di potere. I carabinieri, pur essendo lavoratori con salari non adeguati, godono di un’autorità che conferisce loro il potere di agire sui corpi, specialmente se razzializzati. Negare queste dinamiche significa mistificare la realtà, occultando le intersezioni di classe, etnia e ruolo istituzionale che definiscono le strutture di oppressione. Significa, in breve, dare forma ad una narrazione in cui il razzismo, appunto, “non esiste”.

La figura del carabiniere e del poliziotto – e, per estensione, di tutti quei dispositivi istituzionali che monopolizzano il mantenimento di “ordine e sicurezza” – non può essere considerata neutra. Scegliere di entrare nelle forze dell’ordine significa, infatti, accettare una gerarchizzazione ben precisa, che vede l’autorità statale all’apice e le masse proletarie sui gradini più bassi, a loro volta soggette a discriminazioni interne che si acuiscono con l’intersecarsi di caratteristiche etniche, di genere e così via. In questo quadro, le forze dell’ordine occupano una posizione peculiare: operano come vero e proprio braccio armato dello Stato, entità che nella sua corrente accezione neoliberale ha come obiettivo principale la salvaguardia di uno status quo che massimizza i propri profitti a scapito di vite umane. In altre parole, sono lo strumento attraverso cui si concretizza ciò che il filosofo francese Michel Foucault ha definito biopolitica: il potere di gestire e disciplinare materialmente la vita umana per garantire la stabilità del sistema economico, assicurandosi che la popolazione resti docile e asservita alle logiche del capitale.

Ecco perché associare i carabinieri indagati per l’omicidio di Ramy Elgalml all’immagine di “vittime proletarie” è fuorviante, se non pericoloso. Così facendo, si crea una narrazione in cui l’istituto delle forze dell’ordine è depoliticizzato, assimilato ad una qualsiasi altra attività lavorativa; in tale contesto, diventa molto più semplice ridurre abusi e violenze a casi eccezionali e personalistici – le cosiddette “mele marce” –, distogliendo l’attenzione da un quadro d’insieme che è invece sistematicamente e per sua natura caratterizzato da un utilizzo conscio e abituale della coercizione, spesso nelle sue forme più brutali.

Il radicamento delle forze dell’ordine in pratiche di controllo sociale e repressione è evidente se si guarda alla loro genealogia. Secondo il sociologo Julian Go, le moderne istituzioni di polizia discendono direttamente dagli apparati coloniali britannici del XIX secolo. Negli Stati Uniti, le origini della polizia si intrecciano con la storia degli Slave Patrols, formatisi nel XVIII secolo con lo scopo di reprimere le rivolte degli schiavi e inseguire i fuggitivi per catturarli e riconsegnarli ai padroni. Anche dopo la Guerra Civile e la fine formale della schiavitù, le forze dell’ordine continuarono ad essere uno strumento di segregazione razziale e violenza contro la popolazione nera.

In Italia, la storia non è diversa. Nel 1936 fu istituita la Polizia Coloniale, poi rinominata Polizia d’Africa Italiana, con il compito di garantire il dominio fascista nel Corno d’Africa. Dopo il suo scioglimento nel 1945, la PAI confluì direttamente nelle forze di polizia nazionali, contribuendo alla loro struttura post-bellica. Lo stessosito web della Polizia di Statoriconosce il ruolo cruciale della PAI nella formazione della polizia italiana contemporanea.

Il bagaglio storico e culturale di questi dispositivi di controllo è quindi chiaramente segnato dal razzismo sistemico, al punto da costituirne un tratto imprescindibile che dispiega i suoi effetti quotidianamente, sotto gli occhi di tuttә. Si manifesta sotto forma di profilazione razziale, violenze, abusi e, come nel caso di Ramy Elgalml, omicidi. Quello delle forze dell’ordine è un modus operandi consolidato e normalizzato, la cui sistematicità assume tratti inquietantemente simili in svariati contesti e latitudini, rafforzando l’idea che ci troviamo di fronte ad un problema più che mai strutturale.

Il rapporto Deaths in custody and police operations, realizzato dall’organizzazione spagnola Civio e diffuso nel 2024, elabora i dati forniti da 13 paesi europei sulle morti registrate nel corso di operazioni di polizia: tra il 2020 e il 2022 sono state 488. Si tratta di un numero che non solo rappresenta meno della metà degli Stati membri ma, come specifica lo stesso rapporto, include dati che spesso sono stati forniti in maniera incompleta dalle stesse autorità. Fra le varie rilevazioni, viene sottolineato che le persone migranti sono molto più esposte al rischio di morire in custodia o nel corso di interventi delle forze dell’ordine.

La piattaforma Mapping Police Violence raccoglie invece i casi di omicidio perpetrati dalle forze dell’ordine negli Stati Uniti. Nel 2024, le persone uccise sono state 1365. Nel 2025, al momento della stesura di questo articolo, i morti sono 71: più di due omicidi al giorno. Anche qui, viene specificato che la probabilità per una persona razzializzata di essere presa di mira e uccisa dalla polizia è di 2,8 volte superiore rispetto ad una persona bianca.

Non è un caso che nel contesto statunitense sia stato coniato l’acronimo DWB – Driving While Black/Brown, per indicare l’altissima incidenza di fermi e perquisizioni a cui le persone razzializzate sono soggette. In una sua riflessione dedicata a questo argomento, lo scrittore, attivista e anarchico nero Lorenzo Kom’boa Ervin offre un’analisi puntuale del legame che unisce indissolubilmente razzismo e abusi da parte della polizia. “Non stiamo parlando di pregiudizi personali di qualche stupido bianco a cui non ‘piacciono’ i neri”, scrive, “ma di razzismo sistematico da parte dello Stato, di oppressione nazionale, come la chiamano alcuni scienziati sociali, persino di ‘colonialismo interno’, come lo definiscono altri. Il poliziotto stesso non agisce come un individuo, ma piuttosto come un agente dello Stato, una pistola a contratto”.

Riprendendo il titolo di un importantelavoro di ricerca e riflessione realizzato a più mani da attivistə, giornalistǝ e sopravvissutǝ alla violenza della polizia negli Stati Uniti, la domanda da porsi è: chi proteggono realmente le forze dell’ordine? “Il fatto che sia il governo stesso a proteggere questi poliziotti razzisti, anche quando commettono gli omicidi più orrendi, dovrebbe dirci qualcosa, insieme al fatto che ad essere uccisi sono un numero sproporzionato di neri”, argomenta Kom’boa Ervin. L’apparato securitario delle forze dell’ordine è pensato e implementato dagli Stati-nazione neoliberali per proteggere sé stessi, non la collettività, e per salvaguardare e riprodurre quei meccanismi su cui il capitalismo si regge: discriminazione, deumanizzazione e sfruttamento.

Pensare di poter cambiare o anche soltanto migliorare le cose seguendo la via del riformismo è quindi del tutto illusorio. Ogni tentativo di regolamentare o controllare l’operato delle forze dell’ordine si scontrerà sempre con l’inamovibilità di un sistema progettato appositamente per mantenere il privilegio e la disuguaglianza. In Italia, lo dimostrano la questione dei codici identificativi e, all’opposto, il recente dibattito sul cosiddetto “scudo penale”. Nel primo caso, in oltre vent’anni di tentativi, non si è mai trovato un accordo; nel secondo caso, il governo Meloni starebbe già discutendo l’introduzione di un meccanismo per proteggere poliziotti e carabinieri dall’iscrizione automatica nel registro degli indagati in caso di abusi e violenze.

Esiste quindi una soluzione? Sì, anche se viene da sempre etichettata come troppo radicale e utopistica: abolire la polizia. La critica che viene abitualmente mossa alle istanze abolizioniste è quella di non tenere conto di una realtà in cui senza le forze dell’ordine, la sicurezza delle comunità sarebbe a rischio. Ma il movimento che chiede a gran voce l’abolizione della polizia – movimento che ha il suo fulcro negli Stati Uniti, e che è purtroppo ancora molto poco sviluppato in Europa – ha nel corso degli anni articolato delle risposte molto pragmatiche.

Come spiega l’attivista afroamericana Angela Davis in un’intervista rilasciata nel 2020, abolire le forze dell’ordine “non è una strategia principalmente negativa: non si tratta di smantellare, di eliminare, ma di re-immaginare, di costruire qualcosa di nuovo”. Prima di costruire, però, occorre de-costruire. In quanto membri di una società neoliberale fondata sul primato dell’individuo e della proprietà privata, abbiamo internalizzato un concetto di sicurezza che si basa sul mantenimento coercitivo dell’ordine. Tuttavia, come spiega Andrea J Ritchie, coautrice del libro No More Police: A Case for Abolition, “la sicurezza è una relazione, e non qualcosa di materiale”. Sulla base di questo assunto, è surreale anche solo pensare che la sicurezza possa derivare dall’utilizzo di armi e violenza.

Ciò che il movimento abolizionista propone è quindi un totale cambio di paradigma, uno scenario in cui quelle relazioni che creano sicurezza siano dotate delle risorse e degli strumenti necessari per svilupparsi e rafforzarsi. “Si tratta di spostare i fondi pubblici verso nuovi servizi e nuove istituzioni – consulenti di salute mentale, che possono rispondere alle persone in crisi senza armi. Si tratta di spostare i fondi verso l'istruzione, gli alloggi, le attività ricreative. Tutte queste cose contribuiscono a creare sicurezza e protezione”, spiega Davis.

L’abolizionismo è un invito a rimettere in discussione il reale, a dubitare del fatto che il capitalismo, il neoliberismo, il securitarismo rappresentino l’ordine naturale e incontrovertibile delle cose. Sposta il focus sulla collettività, sulle relazioni reciproche di cura. L’abolizionismo, per dirla con le parole di Angela Davis, “è rivoluzione”. 

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