Marzo 26, 2024
Giustizia Climatica
Il tempo della natura non è più il nostro tempo: perché dobbiamo ripartire dal cibo e dal rapporto con la Terra
Approfondimento di Sara Manisera, FADA Collective
Forse, le grandi brutture del nostro tempo partono proprio dal cibo e da ciò di cui ci nutriamo. Dalla terra, dalle piante, dagli animali, trasformati in prodotti, merci e commodities, standardizzati da sfruttare, omologare e assoggettare. Veri e propri bulloni, brevettati e posseduti da un ristretto gruppo di oligarchi. Basti pensare ai semi, ai pesticidi e alla tecnologia, il cui mercato è controllato per oltre il 60% da colossi come Bayer-Monsanto, DowDupont-Corteva, Chechina-Syngenta e Basf, oppure ad altre materie prime essenziali - grano, riso, soia, zucchero, cacao, caffè - prodotte e commercializzate da altrettanti pochi colossi multimiliardari come Cargill, Archer Daniel Mitland, Bunge, Dreyfus, Cofco. E ancora, pensiamo a chi controlla il mercato della carne, delle bevande, del latte o della frutta. In tutto il mondo, stiamo assistendo a una concentrazione di potere in mano a pochi gruppi agro-tecno-industriali su una delle cose più importanti: il cibo che mangiamo. Dal seme fino al prodotto venduto, tutto è controllato da una manciata di baroni del cibo che estraggono le risorse naturali, sfruttano persone, comunità ed ecosistemi, scaricando costi ambientali e sociali sulla Terra e sui cittadini.
“Dietro il vostro cibo ci sono le mie lacrime” mi ha detto una peona, una lavoratrice dell’industria bananiera Chiquita intervistata in Costa Rica, nell’ambito di un’inchiesta supportata dal Journalism Fund, sugli agrochimici esportati dall’Unione Europea verso il paese centroamericano, terzo per esportazione di banane al mondo, con quasi la metà - circa 1.650.000 tonnellate - dirette solo in Europa.
Come darle torto. Le banane, così come altri prodotti alimentari, devono essere perfette. Perché i consumatori le vogliono perfette, dicono i supermercati. Per essere perfette si spruzzano miscugli di pesticidi di sintesi chimica di ogni tipo, affinché funghi, insetti, larve e uccelli non intacchino la frutta. In questo modo, la frutta è omologata, senza macchie e buchetti, prodotta in serie, in grandi quantità. La si raccoglie quando non è ancora matura, si stocca per lungo periodo e si trasporta su enormi navi cargo o aerei da una parte all’altra del mondo, affinché essa sia sempre disponibile sugli scaffali, di pochi grandi supermercati, in qualsiasi periodo dell’anno.
Per essere perfetta e conservabile nel tempo, ogni giorno, mattino e sera, gli aerei agricoli sorvolano le piantagioni di banano per spruzzare un miscuglio di pesticidi, alcuni dei quali proibiti o limitati nell’Unione Europea, tra cui il chlorothalonyl, il terbuphos o il mancozeb, una sostanza che può “danneggiare il feto, è molto tossica per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata, è sospettata di provocare il cancro, può causare danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta e può provocare una reazione allergica della pelle”, secondo l’Agenzia Chimica Europea (ECHA).
Questo funghicida - così come altri pesticidi e prodotti di sintesi chimica- è una parte essenziale della produzione di una coltura come la banana che, ironicamente, viene poi venduta in paesi dove tali pesticidi sono proibiti.
Insomma, in Europa si proibiscono alcuni pesticidi - grazie a ricerche e studi decennali, campagne di advocacy, mobilitazione della società civile - che vengono comunque esportati da aziende e multinazionali europee in altri paesi, per produrre frutta che viene poi importata in Europa. Un sistema zeppo di contraddizioni - e ingiustizie - ma assolutamente legale che risponde sempre alle solite logiche: produzione seriale, massiccia votata alla crescita infinita e soprattutto accumulazione di profitto, per pochi, con immensi costi ambientali, sanitari, sociali, scaricati su tutt3.
Un studio dell 2021 di Le Basic, l’Ufficio per la valutazione degli impatti sociali per informare i cittadini basato in Francia, ha concluso che i costi legati all'impatto dell'uso dei pesticidi in Europa sulla salute umana, sulla qualità dell'acqua, sul suolo e infine sulla produzione alimentare - costi che devono essere sostenuti dalla società attraverso la spesa pubblica - sono molto più alti dei profitti netti realizzati dal settore dei pesticidi.
Sono inoltre centinaia i report, gli articoli, le ricerche accademiche e le relazioni di organismi autorevoli come l’IPCC - Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico - che evidenziano come questo sistema agroindustriale basato sulla monocultura e l’alto uso di pesticidi sintetici sia uno dei settori maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra - una della cause della crisi climatica - e della riduzione della biodiversità a livello globale.
Insomma, l’economia che guida il mondo e il modo in cui produciamo il cibo uccide il suolo, animali, insetti, crostacei, uccelli e altre decine di specie animali e vegetali. Qualcuno potrebbe ribattere: “sì ma per sfamare i quasi 8 miliardi di persone è necessaria la produzione agricola industriale”. In realtà, il meccanismo del cibo a basso costo standardizzato costruito su filiere lunghissime provoca un grande spreco di cibo. Nel 2023, solo nell’Unione Europea sono state buttate 158 tonnellate di cibo, pari a 131 kg per persona. Allo stesso tempo, oltre 37 milioni di persone non possono permettersi un pasto di qualità ogni due giorni (Eurostat, 2023).
E allora, che fare?
Finché a guidare le scelte saranno solo il profitto, l'iper produttività e la crescita infinita, possiamo solo aspettarci un pianeta sempre più caldo, eventi atmosferici estremi, riduzione della quantità di cibo a disposizione, calamità, virus e zoonosi che impatteranno maggiormente le persone più vulnerabili del sud globale e le classi sociali più fragili. È la logica estrattivista e di profitto come unico valore che deve cambiare. Per farlo bisogna sviluppare un pensiero e un immaginario che aiuti a forgiare una cultura olistica, ecologica, intersezionale con al centro il benessere dell’ecosistema e della salute umana. Non è possibile che le scelte siano guidate solo dalla logica economica. Non è possibile che il PIL - il prodotto interno lordo - sia l’unico valore di riferimento.
La crescita infinita non può esistere perché le risorse, in primis naturali, sono finite. Il pensiero estrattivista e antropocentrico, legato intrinsecamente al sistema economico capitalista dell’accumulazione infinita di profitto, deve iniziare ad essere sostituito dal pensiero curativo, circolare ed ecologico basato su un’altra economia: locale, rigenerativa, redistributiva e orizzontale. Va ripensato e ricodificato il concetto di sviluppo e di sicurezza, inteso non come crescita infinita e sicurezza pubblica ma come cura della casa comune.
E per farlo, forse bisognerebbe ripartire proprio dal rapporto tra esseri umani, cibo e natura. Non mero oggetto da assoggettare ma parte centrale della nostra esistenza e sopravvivenza. I neofiti della tecnologia diranno che questa risponderà a tutte le sfide che il presente e il futuro ci porrà. In parte è vero, la tecnologia può rispondere ad alcune sfide alimentari - e non solo - ma non potrà essere l’unica soluzione. È il pensiero che deve cambiare, il vuoto di senso che ci circonda deve essere sostituito da pratiche ecologiche e comunitarie reali e da nuovi valori-tessuto: sobrietà, reciprocità, gentilezza, compassione, natura, solidarietà, gratitudine, sofferenza, intersezionalità delle lotte e dei valori, come il femminismo, l’antispecismo, l’antirazzismo, il superamento dei nazionalismi e la lotta di classe.
Per creare il pensiero, però, dobbiamo ritrovare il tempo della natura che abbiamo perso. Dobbiamo vivere un’ecologia integrale e gettare i semi di un rinascimento spirituale, tornando a sentirci un essere di passaggio, una delle miliardi di specie viventi di questo pianeta. Una delle specie più invasive che ha perso completamente il rapporto con la sua casa madre, la Terra. Il tempo della natura non è più il nostro tempo perché è un tempo lentissimo che non si adatta ai tempi dell’economia capitalista ma a lungo andare, la natura ci insegna che la cura porta annate di frutti abbondanti. Ed è forse proprio dalla Terra e dal cibo che mangiamo che dobbiamo ripartire per generare altre forme di economia civile, solidali, giuste e di cura.