Luglio 07, 2021
Giustizia Climatica
DALLA NOSTRA SPESA AL SUPERMERCATO DIPENDE IL PRESENTE (E IL FUTURO) DEL PIANETA
Approfondimento di Sara Manisera, FADA Collective
"Noi siamo ciò che mangiamo"
Ludwig Andreas Feuerbach, filosofo tedesco, 1850
È ormai sempre più evidente che il modo in cui produciamo e consumiamo il cibo ha come conseguenza diretta lo sfruttamento dell'uomo e dell'ambiente. Se è vero che questo sistema alimentare - cioè il complesso di processi che va dalla produzione delle materie prime fino alla distribuzione - permette ai consumatori di accedere a prodotti a basso prezzo, è altrettanto innegabile che questo sistema ha degli enormi costi ambientali e sociali. Le logiche di mercato e della filiera lunga impongono, infatti, costi sociali altissimi che ricadono, spesso, sui più vulnerabili, i piccoli produttori e i braccianti stagionali. Ai costi sociali, si aggiungono altri costi mai calcolati: quelli ambientali e quelli sulla salute. "Quasi un miliardo di persone soffre la fame, quasi due miliardi mangiano troppo e male; la frequenza delle malattie non trasmissibili, come le patologie cardiovascolari e il diabete, è in aumento e le diete malsane causano ogni anno fino a undici milioni di decessi prematuri", si legge nel rapporto "The 21st-Century Great Food Transformation" pubblicato su The Lancet nel 2019.
Come scrivono Stefania Grando e Salvatore Ceccarelli in "Seminare il futuro: Perché coltivare la biodiversità (Terrafutura edizioni)", ogni paziente affetto da diabete "costa al sistema sanitario nazionale 2.589 euro l'anno. Le terapie per il diabete costano il 9% del bilancio ovvero 8,26 miliardi". La ricerca di The Lancet e il libro di questi due professori di genetica, sottolineano, inoltre che l'attuale sistema alimentare "contribuisce in modo notevole all'emergenza climatica e accelera il processo di erosione della biodiversità naturale".
Alla base di questo sistema alimentare c'è un tipo di agricoltura, quella praticata in modo industriale, che si basa sull'elevato utilizzo di prodotti chimici e, pur assicurando produzioni ai massimi livelli quantitativi di sempre, non è resiliente, cioè non è capace di assorbire senza danni le differenze di piovosità e temperatura che si verificano da un anno all'altro, e quindi è molto vulnerabile alla crisi climatica.
Inoltre, secondo un recente studio condotto dal laboratorio CULTLAB della Scuola di Agraria dell'Università di Firenze, in collaborazione con la segreteria scientifica dell'Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale, l'agricoltura industriale intensiva e monocolturale ha facilitato la diffusione del virus covid-19 e potrebbe essere una delle cause di future zoonosi:
"Nelle aree dove l'agricoltura utilizza sistemi intensivi, ad alto uso di meccanica e di chimica, l'incidenza del contagio è più elevata", si legge nella ricerca. Lo studio mette in relazione il numero di casi di coronavirus registrati sul territorio nazionale e i modelli di agricoltura presenti nelle varie zone del Paese, evidenziando una "maggiore incidenza del virus, da 4.150 fino a 8.676 casi, nelle zone agricole periurbane e ad agricoltura intensiva, in particolare nelle aree della Pianura Padana, del fronte adriatico dell'Emilia Romagna, della valle dell'Arno tra Firenze e Pisa, e nelle zone intorno a Roma e Napoli, dove si registra un più alto livello di meccanizzazione, impiego della chimica e agroindustria e maggiori interrelazioni con urbanizzazione e inquinamento".
Se uno studio italiano non è sufficiente, basta leggere il rapporto dell'UNEP, l'agenzia dell'Onu per l'ambiente e dell'International Livestock Research Institute. I due istituti hanno evidenziato sette tendenze che stanno spingendo verso un aumento delle zoonosi: la maggiore richiesta di proteine animali, l'aumento dell'agricoltura intensiva e non sostenibile, lo sfruttamento sempre maggiore della fauna selvatica, l'utilizzo massiccio delle risorse naturali attraverso l'urbanizzazione e l'industria estrattiva, l'aumento dei viaggi e dei trasporti e la crisi climatica.
"La scienza è chiara: se continuiamo a sfruttare la fauna selvatica e a distruggere i nostri ecosistemi, allora possiamo aspettarci di vedere un flusso costante di queste malattie saltare dagli animali all'uomo negli anni a venire", ha dichiarato il direttore esecutivo dell'UNEP Inger Andersen. "Per prevenire future epidemie, dobbiamo diventare molto più attenti a proteggere il nostro ambiente naturale".
L'agricoltura intensiva, così come gli allevamenti intensivi hanno facilitato la diffusione del virus covid-19 e potrebbero essere una delle cause di future zoonosi. Tra le strategie da adottare per ridurre i rischi di altre pandemie, l'UNEP raccomanda ai paesi di conservare gli habitat naturali, promuovere l'agricoltura sostenibile, rafforzare gli standard di sicurezza alimentare, monitorare e regolare i mercati alimentari.
E qui torniamo alla nostra spesa al supemercato. A come mangiamo e consumiamo. E la necessità di riportare al centro del dibattito pubblico il cibo, chi lo fa e il ruolo che rivestono i contadini-guardiani del territorio, coloro che coltivano seguendo le stagioni della natura, proteggendo i suoli, senza usare prodotti chimici e diserbanti altamente inquinanti.
È fondamentale che la politica nazionale, europea e internazionale riconosca a questi guardiani della biodiversità un ruolo politico, culturale, sociale e non meramente economico. Chi protegge i suoli, chi protegge la biodiversità, chi porta avanti un tipo di economia sostenibile ed olistica, può essere equiparato a chi sfrutta la terra, a chi inquina, a chi pensa solo ed esclusivamente al profitto? È ancora socialmente accettabile? O è forse necessario un cambio di paradigma dove il mero profitto economico sia legato alla sostenibilità ambientale e ai diritti delle persone?
Il sistema agricolo attuale causa lo sfruttamento dei lavoratori e dell'ambiente. È necessaria una battaglia culturale e politica per arginare le pratiche scorrette della Grande distribuzione organizzata e per convincere i cittadini-consumatori a mangiare in modo consapevole. In questo sistema che trasforma in merce il bene più prezioso - il cibo - e posiziona il profitto prima del rispetto dell'uomo e dell'ambiente, noi cittadini-consumatori abbiamo enormi responsabilità, perché possiamo scegliere, attraverso la nostra spesa, di sostenere una filiera agroalimentare sana, senza sfruttamento.
Come?
Le soluzioni a portata di mano sono moltissime: i gruppi di acquisto solidali (ogni città ne ha almeno uno), la spesa in cascina il fine settimana, i mercati dei produttori locali. E poi la rete di Altromercato, quella di Semi Rurali dove si possono scoprire e conoscere gli agricoltori e i contadini che coltivano "i grani del futuro", tenendo insieme redditività economica e sostenibilità ambientale. E poi Fuori Mercato, Genuino Clandestino, Sfrutta Zero, No Cap. E ancora le CSA, ovvero l'agricoltura sostenuta dalla comunità. In pratica i cittadini-consumatori partecipano insieme ai contadini alla produzione agricola (in base ai tempi e le risorse) e se ne assumono rischi e benefici.
E a livello politico? Noi cittadini dovremmo richiedere la tracciabilità del prodotto, un'etichetta narrante con un QR per sapere non solo dove è stato prodotto ciò che acquistiamo ma se sono stati rispettati i diritti dei lavoratori e dell'ambiente. Dovremmo spingere affinché pratiche sleali, come le aste al doppio ribasso - recentemente vietate dal Parlamento, grazie ad anni di campagne della società civile - e le politiche del sottocosto non siano più praticate.
Certo, la bacchetta magica non esiste e i cambiamenti strutturali richiedono tempo ma è necessario un cambio di paradigma culturale e uno sforzo collettivo affinché il cibo torni ad avere il giusto valore per chi lo mangia, per chi lo coltiva e per chi lo raccoglie, proteggendo il nostro pianeta.