Novembre 14, 2023
Giustizia Climatica
Antispecismo, veganismo e capitalismo. Una conversazione con Alice Pomiato
la voce di Alice Pomiato, intervistata da Michela Grasso, Spaghettipolitics
L’antispecismo viene definito dall’Enciclopedia Treccani come “Pensiero, movimento, atteggiamento che, in opposizione allo specismo, si oppone alla convinzione, ritenuta pregiudiziale, secondo cui la specie umana sarebbe superiore alle altre specie animali e sostiene che l'essere umano non può disporre della vita e della libertà di esseri appartenenti a un’altra specie”.
D: Ciao Alice, ci racconti di cosa ti occupi?
R: Mi definisco una content creator e una formatrice su temi legati alla sostenibilità. In questo periodo mi sto concentrando sul lavoro nelle scuole e nelle aziende: creo dei percorsi di formazione per dare alle persone gli strumenti per approcciarsi alla sostenibilità. Quando faccio formazione, parto spiegando perché stiamo vivendo una crisi climatica, per poi concentrarmi su cosa possiamo fare a livello individuale, collettivo, lavorativo, come poter diventare agenti di cambiamento nel mondo. Spesso mi rendo conto che le persone non sanno di cosa si stia parlando quando si parla di sostenibilità, si sentono scoraggiate da quello che vedono e sentono, ma non sanno da dove iniziare per cambiare la loro vita.
D: Sui social parli di sostenibilità, e tratti spesso l’argomento dell’antispecismo, come ti sei avvicinata a questa filosofia di pensiero?
R: Quando nel 2020 ho aperto il mio canale Instagram, Aliceful, volevo condividere il mio cammino personale verso una vita più sostenibile. Ai tempi ero onnivora, mangiavo di tutto, e man mano che la community cresceva, a seguirmi erano sempre più persone vegane e antispeciste, che hanno cominciato a farmi notare delle incongruenze nel mio modo di ragionare. Da lì io ho cominciato a interessarmi all’argomento, seguendo diverse pagine che trattavano di antispecismo, veganismo, ecologia e ambiente. Il mio percorso verso l’antispecismo è partito dall’alimentazione perché tutto quello che riguarda lo sfruttamento degli animali spesso riguarda l’industria volta a trasformare gli animali in cibo. Lo sfruttamento animale è ovunque: nella sperimentazione, negli zoo, nella forza lavoro, nell’intrattenimento, nel commercio di animali domestici; il nostro pianeta è stato trasformato in una prigione per animali e queste riflessioni mi hanno portata sul cammino antispecista.
D: Come mai tante persone faticano ad incamminarsi su questa strada?
R: Credo che tutti abbiano un modo molto diverso di ragionare e di approcciarsi al mondo. Io mi ritengo una persona molto curiosa, a cui piace mettersi in discussione, mi piace pensarmi come qualcuno che non ha la verità in mano. Ma nella diversità del mondo, ci sono anche tante persone che stanno bene così come sono, comode in un certo tipo di pensieri e abitudini, questo rende difficile mettersi in discussione. Se a questo poi si aggiunge la totale normalizzazione e istituzionalizzazione di pratiche violente nella produzione di cibo, è quasi ovvio che cambiare il proprio modo di pensare diventi ancora più complicato. Andare contro corrente richiede tanta energia e tanta consapevolezza.
D: In Italia i vegani sono spesso giudicati male, da cosa deriva questa percezione secondo te?
R: Il discorso è complesso; nello spazio pubblico, il vegano viene spesso identificato con il termine di “nazi-vegano”. Questo succede perché la comunità vegana si è fatta riconoscere per essere violenta verbalmente, e il pubblico non ama come alcune battaglie sono state portate avanti. Io lo riconosco, ma mi viene da aggiungere, se stessi parlando di esseri umani, la reazione sarebbe considerata altrettanto violenta? Di fronte a un’ingiustizia contro una popolazione umana, le reazioni violente, le manifestazioni e le condanne, sono viste in maniera completamente diversa rispetto alla stessa reazione contro una violenza che vede morire macellati 90 miliardi di animali ogni anno. Animali costretti a vivere e a morire in condizioni terrificanti, e quando nel mondo succede che siano delle persone a essere costrette a vivere nelle stesse condizioni, è (giustamente) considerato corretto opporvisi. Nel momento in cui io però mi oppongo vocalmente al massacro animale, l’opinione pubblica mi identifica come estremista, pazza, nazi-vegana. Credo che questo derivi dalla perdita di connessione che abbiamo con il mondo che ci circonda, gli animali sono visti come cose, oggetti al nostro servizio di cui disporre. Riconosco che come comunità dobbiamo lavorare in modo diverso, la comunicazione violenta non funziona, non ha senso scagliarsi contro i singoli: io so che quando mia nonna fa il ragù, non è una persona sadica, violenta o cattiva. È una persona che vive all'interno di una società che ha normalizzato legalizzato e istituzionalizzato la violenza animale. L’antispecismo è una vera e propria rivoluzione culturale nel mondo occidentale, cambia completamente il nostro modo di pensare. Se si stima che la parità di genere in Italia verrà raggiunta tra più di 130 anni, quanti anni ci vorranno per rispettare la vita degli animali? Non credo che noi vedremo mai questo momento, forse nemmeno i nostri nipoti.
D: Alice, ti chiedo di commentare questo dilemma. In Italia, un paese con una grandissima tradizione culinaria vegetariana e vegana, si fa spesso fatica a mangiare senza derivati animali. Al contrario, in un paese come l’Olanda, con una tradizione culinaria basata quasi interamente sulla carne, essere vegani è molto più semplice. Cosa ne pensi?
R: Questa riflessione mi fa venire in mente DOI podcast, che racconta come tutto quello che noi consideriamo cultura gastronomica italiana sia in realtà frutto di una grandissima operazione di marketing su cui abbiamo costruito un impero. I paesi nordici invece hanno seguito un iter differente. Di base, erano paesi dove coltivare poteva essere difficile, soprattutto in inverno, e di conseguenza non c’era un’alternativa alla carne. Oggi però, sembrano essersi resi conto dei danni enormi che l’industria della carne e dei derivati animali porta al pianeta, e si stanno impegnando moltissimo nell’offerta e nella creazione di alternative. Per esempio, proprio l’Olanda sta cercando di convincere gli allevatori a riconvertire le proprie aziende, ovviamente andando in contro a una forte opposizione. Ma perchè esiste questa opposizione? L’allevatore è un mestiere che si passa di generazione in generazione, un lavoro familiare, e spesso chi lo fa non ha alternative. L’allevatore è una figura legata alla terra, e quando lo stato ti dice che devi smetterla di allevare le tue mucche perché inquinano, è normale reagire male. Per questo dobbiamo cambiare il nostro modo di comunicare, non è colpa dell’individuo, ma del sistema. Ed è questo sistema che deve aiutarci a cambiare.
D: Come vedi il fenomeno crescente dei giovani italiani che “tornano a lavorare la terra”?
R: Io conosco tantissime persone che hanno fatto “climate quitting”: hanno lasciato il loro lavoro di ufficio per andare a lavorare la terra, per avere un impatto diverso sul mondo. A molti di noi è stata venduta la falsa idea che fare il contadino fosse un lavoro brutto, inferiore e ignorante. Eppure, produrre cibo è uno dei lavori più importanti per la nostra società. Ci hanno convinti che lavorando la terra ci saremmo rovinati, ma non ci hanno detto che stando 8 ore al giorno in ufficio per anni ci saremmo rovinati corpo e mente. Io prima lavoravo in un’agenzia pubblicitaria, alcune notti non si dormiva, si lavorava come dei pazzi, come se stessimo salvando delle vite umane, è un’assurdità. Lo stato deve incentivare le aziende agricole, spingere per il lavoro della terra. Bisogna creare realtà in grado di sfamare la comunità locale e preservare i territori e l’ecosistema, ma per farlo bisogna avere le condizioni giuste.
D: Come immagini un futuro diverso?
R: Per me la cosa più importante da fare per permetterci un futuro diverso, è affrontare il grande elefante nella stanza, di cui nessuno vuole parlare: il nostro sistema economico. È ora di mettere in discussione il capitalismo, ormai ci siamo resi conto che non funziona. Non è possibile che persino nell’economia ambientale si parli di rendere il capitalismo “green”. Non si può continuare a credere nella crescita infinita e nell’espansione. Per esempio, facciamo finta di riuscire ad avere energia nucleare ovunque, zero emissioni fossili. Questo non vuol dire smettere di inquinare o distruggere il pianeta. Anche con zero emissioni, l’estrazione delle risorse non si ferma, e queste risorse non si rigenerano alla stessa velocità con cui vengono estratte. Nel futuro che mi immagino, chi studia economia deve anche studiare biologia e avere un’idea ben precisa di come funzioni il mondo e la logica dell’estrazione di risorse dagli ambienti naturali. Serve un grandissimo lavoro di cultura e educazione per creare un’economia volta al bene comune, alla collettività. Un buon esempio è quello del bioregionalismo, ovvero un sistema di governo basato sull’idea che ogni regione, provincia o città possa autogovernarsi in maniera autonoma e diversa in base alle proprie caratteristiche naturali e sociali.
D: Prima hai menzionato come l’essere umano in occidente si veda separato dalla natura, ti va di parlarne?
R: Un esempio di questo tema è il fenomeno dell’ecofobia, ovvero il disgusto o la paura che una persona prova rispetto agli ambienti naturali. Alcune ricerche hanno dimostrato come dopo il COVID, l’ecofobia sia aumentata soprattutto tra i bambini, ormai abituati a vivere in ambienti chiusi e controllati. In un mondo come quello occidentale, dove si vive sempre più distaccati dalla natura, è normale crescere intimoriti dall’ambiente naturale, percependolo addirittura come una minaccia. Questo è un problema, perché se tu non ami la natura, non la riconosci nella sua potenza, oppure se ti fa schifo, non riuscirai mai a lavorare per proteggerla. E proprio sui bambini ci sarebbe un grande discorso da fare, perché spesso non ci accorgiamo di quanto siano più aperti di noi nel rispetto dell’ambiente. Di recente sono stata in un rifugio per animali, che si autosostiene con donazioni volontarie, e mi è venuto spontaneo chiedergli come mai non facessero fattorie didattiche per le scolaresche, per vedere come gli animali possono vivere liberi senza essere sfruttati. E mi hanno detto assolutamente no perché questo crea un cortocircuito nel bambino: se a casa i genitori hanno normalizzato mangiare animali, e non vogliono mettere in discussione quest’abitudine, e poi tu al bambino dici che le polpette che stanno mangiando vengono dal vitellino, rischi di mandarlo in tilt. E questo succede proprio perché più si è piccoli e più si è in grado di vedere le cose da un’altra prospettiva.
D: Cosa risponderesti a tutte quelle persone che dicono che se non mangi gli animali, allora non dovresti nemmeno mangiare le piante dato che anche loro “soffrono”?
R: L’anno scorso ho fatto il master “futuro vegetale” di Stefano Mancuso, uno tra i più grandi esperti mondiali di neurobiologia vegetale, proprio quello che ha scritto tutti quei libri da cui le persone attingono i loro commenti sulla sofferenza delle piante. E io gliel’ho chiesto, “Prof, ma le piante soffrono?”. E lui mi ha risposto dicendomi che le piante non soffrono per come lo intendiamo noi, avendo un sistema nervoso centrale completamente diverso da quello di mammiferi, volatili, etc.. Le piante, sono forme di vita molto intelligenti, evolute, adattabili e diverse da noi. Solitamente lo scopo della pianta da frutto o dell'orticola è quello di produrre dei frutti che verranno mangiati, che devono essere mangiati. Perché? Perché l’essere digerite da altri esseri viventi aiuta queste piante a mandare avanti la loro specie, a proliferare, questa è la loro intelligenza. L’antispecismo e il veganismo sono scelte etiche, e chiaramente non devono portare al suicidio, ma causare meno sofferenza possibile. E poi Mancuso ha aggiunto un’altra cosa: se queste persone ci tenessero davvero alle piante allora non mangerebbero la carne. Infatti, il 70% delle terre coltivate al mondo, sono coltivate per nutrire gli animali che finiscono nel nostro piatto.