Gennaio 16, 2024
DIRITTI UMANI
La repressione dell* attivist* nel Sahara Occidentale passa anche dall’Italia: la storia di Mohamed Dihani
Approfondimento di Marco Biondi
«Mi definisco un attivista costretto ad esserlo». Lo dice così, senza troppi giri di parole, Mohamed Dihani, difensore dei diritti umani e dell'autodeterminazione del popolo saharawi, ex prigioniero politico, vittima di detenzione arbitraria e torture per il suo attivismo pacifico. La sua storia inizia molti anni fa a El’Aiun nella Repubblica Saharawi, regione del Sahara Occidentale contesa fin dai tempi della fine del colonialismo spagnolo, tra il gruppo di resistenza del Fronte Polisario e il Marocco che l’ha più volte occupata militarmente. «Nel Saharawi c’è un’oppressione sistematica su tutti i livelli che ti spinge inevitabilmente ad essere un attivista», spiega Dihani a Voice Over Foundation.
La storia di attivismo di Dihani ha inizio quando è un bambino. All’età di 10 anni viene arrestato per la prima volta per aver partecipato ad una manifestazione pacifica per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Poi, con il padre, nel 2002 si trasferisce in Italia per 6 anni, con un permesso di soggiorno per poter lavorare. Nel 2008, rientra in Marocco e si ricongiunge con la sua famiglia ma nel 2010 Dihani viene nuovamente arrestato ad El’Aiun senza un mandato e senza che gli fosse stata spiegata la ragione del suo arresto.
Mohamed rifiuta di collaborare con l’intelligence marocchina che vuole ottenere informazioni sul Fronte Polisario e viene così detenuto arbitrariamente fino al 2015, a seguito di un percorso giudiziario marcato da gravi irregolarità, come ha documentato Amnesty International: torture fisiche e psicologiche, confessioni estorte. «Ho caricato su Youtube le registrazioni di quello che subivo in carcere grazie ad un cellulare che mi ero procurato all’interno della prigione. Questi video sono stati pubblicati anche da alcuni giornali come Al Jazeera e da organizzazioni come Amnesty. Per questo mi hanno mandato in isolamento totale per 4 anni, con il permesso di uscire solo per cure mediche o per visitare brevemente i familiari. Nel 2015, quando sono uscito dal carcere, insieme a due amici attivisti ho fondato un sito di informazione, Western Sahara Times ma siamo stati costretti a chiuderlo per i continui attacchi degli hacker», racconta Dihani.
Il carattere arbitrario della sua detenzione è stato riconosciuto anche dal Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie che, come riportato da Amnesty, “ha esortato il governo marocchino a rilasciarlo immediatamente, a svolgere un’indagine indipendente e imparziale sugli atti di tortura e a concedere il pieno risarcimento dei danni fisici e psicologici cagionati dai trattamenti inumani e degradanti”. Nel documento delle Nazioni Unite è stato comprovato che Dihani è stato accusato di aver pianificato attacchi terroristici in Danimarca e in Italia, ma “le autorità marocchine non hanno mai richiesto la cooperazione di questi Stati per confermare queste accuse”.
Nel 2015, Dihani esce dal carcere e sceglie di continuare a denunciare le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità marocchine, come la repressione del dissenso attraverso aggressioni, torture, detenzioni arbitrarie e false accuse. Sostenuto da Amnesty, nel 2018 fa richiesta di un visto per cure mediche per recarsi in Italia a sottoporsi a vari trattamenti che gli avrebbero permesso di curare le conseguenze fisiche e psicologiche delle torture subite in carcere. Il consolato italiano di Casablanca rifiuta però il visto, giustificando il rigetto con una segnalazione illegittima nel database europeo per la gestione delle frontiere (SIS, Schengen Information System, il sistema di condivisione delle informazioni più utilizzato dalll’UE). “Negli anni successivi, le autorità italiane hanno dichiarato che le ragioni della segnalazione a carico dell’attivista non potevano essere rivelate perché fondate su un dossier riservato e segretato”, scrive Amnesty Italia.
Grazie al programma di Amnesty International di supporto per difensori dei diritti umani a rischio, dal 2019 Mohamed Dihani è riuscito a rifugiarsi temporaneamente in Tunisia per proteggersi dalle continue persecuzioni delle autorità marocchine, in attesa di poter cancellare la segnalazione nella blacklist Schengen che ostacolava il suo ingresso in Italia e la successiva richiesta di protezione internazionale. Durante la sua permanenza in Tunisia, Mohamed Dihani non ha mai interrotto il suo attivismo politico ma le difficoltà non sono mancate. Le autorità tunisine, infatti, sotto la pressione di quelle marocchine hanno più volte intimidito Dihani minacciandolo di rimpatrio forzato nel suo paese d’origine, dove avrebbe rischiato di subire nuovamente torture e trattamenti inumani e degradanti. «Non mi sentivo sicuro neanche in Tunisia. Mi hanno sequestrato varie volte ma diverse associazioni sono riuscite a fermare il mio rimpatrio in Marocco», spiega Dihani. Nel 2020, 211 organizzazioni hanno firmato una lettera aperta al Presidente della Tunisia, chiedendo di non accettare la richiesta di estradizione di Dihani in Marocco e ribadendo che “le confessioni di crimini ottenute attraverso la tortura e senza il supporto di evidenze materiali sono contrarie agli articoli 9 e 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e agli articoli 9 e 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici”.
Il suo diritto a presentare domanda di protezione internazionale in Italia è stato riconosciuto nel 2022 da due ordinanze del tribunale di Roma, che ha imposto al Ministero degli Affari Esteri il rilascio di un visto di ingresso sul territorio italiano. Come hanno spiegato a Melting Pot i legali Andrea Dini Modigliani e Cleo Maria Feoli, “le ordinanze in commento hanno riconosciuto l’ampia scala di persecuzioni da parte delle autorità marocchine nei confronti di attivisti ed attiviste saharawi”. A maggio 2023 la Commissione territoriale di Roma ha però rigettato la richiesta di protezione internazionale, ritenendo il Marocco un paese sicuro. Attualmente Dihani sta affrontando un doppio percorso giudiziario: “da un lato ha chiesto all’Autorità giudiziaria la cancellazione dei dati personali contenuti nella Banca Dati SIS II, dall’altro, Dihani ha impugnato il provvedimento di rigetto della richiesta di protezione internazionale deliberato”, si legge sul sito di Amnesty.
L’inserimento dei dati di Mohammed Dihani nella “lista nera” Schengen pone grossi interrogativi sui rapporti tra l’intelligence del Marocco e gli Stati europei. Lo scandalo di corruzione soprannominato Qatargate, scoppiato alla fine del 2022, ha fatto emergere rapporti inquietanti tra alcuni politici europei e i governi del Qatar e del Marocco, portando all’arresto dell’allora vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili, dell’ex deputato Pier Antonio Panzeri e di altri indagati, che attualmente sono usciti dal carcere e si trovano ai domiciliari.
Come riporta il sito Maroc Leaks, i servizi segreti marocchini facevano pressioni su alcuni funzionari e membri del Parlamento europeo al fine di prendere «le decisioni necessarie a promuovere gli accordi economici con il Marocco, l’immagine del paese in tema di diritti umani e attuare il piano di annessione e autonomia relativo al Sahara occidentale». Ancora oggi, infatti, il processo di autodeterminazione del popolo saharawi rimane in stallo nonostante molteplici risoluzioni, tra cui la Risoluzione 690 del 1991 del Consiglio di Sicurezza che ha creato la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum del Sahara Occidentale (MINURSO) per operare nel territorio annesso dal Marocco nel 1975 e nei campi profughi saharawi a Tindouf, nel sud-ovest dell’Algeria.
Ciò che emerge negli ultimi anni è il controllo sistemico attuato dalle autorità marocchine nei confronti di attivist* dei diritti umani e giornalist*. Come riportato da Oubi Bouchraya, attivista del Sahara occidentale, “il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite ha chiesto il rilascio di decine di attivisti Saharawi” del gruppo Gdeim Izik, arrestati nel 2010 per aver partecipato alle proteste che avviarono la cosiddetta Primavera Araba nel Sahara Occidentale. Il Gruppo ha confermato la presenza di diverse violazioni dei diritti umani, come la negazione del diritto di queste persone - tra cui giornalisti - a parlare con i propri avvocati, confessioni estratte sotto tortura, la mancanza di imparzialità e indipendenza del tribunale. Uno dei prigionieri, condannato all’ergastolo, è il Segretario Generale del Comitato per la protezione delle risorse naturali del Sahara Occidentale. Come riportato da Western Sahara Resource Watch, il Comitato delle Nazioni Unite per la tortura ha già pubblicato le decisioni riguardanti 5 prigionieri di Gdeim Izik: Mohammed Bani, Abdeljalil Laaroussi, Naama Asfari, Mohammed Bourial e Sidi Abdallahi Abbahah, denunciando la tortura e l'uso di confessioni firmate sotto tortura come base per la loro detenzione. Un altro caso simile è quello di Omar Radi, giornalista d’inchiesta indipendente che si è occupato di movimenti sociali come Hirak-El Rif e di corruzione statale.
Come confermato da un’inchiesta di Amnesty, Radi era stato spiato sul proprio telefono dal governo marocchino attraverso l’utilizzo del malware Pegasus, prodotto dall'azienda israeliana Nso, specializzata nello sviluppo di tecnologie di sorveglianza. Radi è stato condannato a sei anni di carcere sulla base di accuse infondate di spionaggio del governo olandese (eventualità negata anche dal governo dei Paesi Bassi) e di stupro. “Numerosi studi e ripetuti casi venuti alla luce nell’ultimo anno raccontano una storia diversa, nella quale i bersagli prediletti dei clienti della Nso sono piuttosto attivist* e giornalist*. Tra questi, sempre in Marocco, anche lo storico e cofondatore del movimento Freedom Now, Maâti Monjib, e l’avvocato Abdessadak El Bouchattaoui, coinvolto nella difesa dei manifestanti arrestati durante le proteste del movimento hirak, tra il 2016 e il 2017”, scrivono Cecilia Anesi e Raffaele Angius su Internazionale.
La vicenda di Dihani, di altr* attivist* in Marocco e del popolo Saharawi denota ancora una volta il disinteresse dell’Italia e dell’Unione Europea verso un’effettiva e coerente difesa dei diritti umani secondo il diritto internazionale, mostrando perlopiù l’inadeguatezza dei criteri adottati per decidere se un Paese sia oggettivamente sicuro e se una persona abbia il diritto di ricevere protezione. Come segnalato da Western Sahara Resource Watch, la risoluzione che condannava i casi di corruzione del Qatargate “dimenticava” infatti il coinvolgimento del Marocco: un emendamento che esplicitava il coinvolgimento della monarchia marocchina allo stesso livello del regime qatariota è stato respinto dalla maggioranza del Parlamento europeo, con 238 voti a favore, 257 voti contrari e 67 astensioni.
Quali sono le ragioni dietro il doppio standard? L’Italia e L’Unione Europea sembrano prediligere a qualunque costo la tutela della “fortezza Europa” attraverso l’esternalizzazione delle frontiere all’effettiva tutela dei diritti umani, lo stesso modus operandi visto nelle relazioni con altri Paesi come la Turchia.
Una risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2023 sulla situazione dei giornalisti in Marocco esortava le autorità marocchine a porre fine alla sorveglianza dei giornalisti, tramite mezzi come lo spyware Pegasus del gruppo NSO, e chiedeva con urgenza agli Stati membri di cessare le esportazioni di tecnologia di sorveglianza verso il Marocco, situato al 136esimo posto su 180 nell’indice della libertà di stampa di Reporters Senza Frontiere. Le politiche repressive della monarchia costituzionale di Rabat sono infatti legate a una serie di tecnologie di sorveglianza sviluppate da altri Stati e rinforzate da accordi bilaterali come il memorandum siglato con Israele nel 2021 che prevede una cooperazione più solida negli ambiti della sicurezza e della difesa, specialmente nei settori dell’intelligence e dell’addestramento militare. Nel 2021 gli Stati Uniti hanno deciso di aggiungere la società israeliana Nso Group nella blacklist federale, proibendo all’azienda di ricevere componenti di tecnologia statunitense.
Dihani parla di circa 45 prigionier* politic* attualmente in carcere per il proprio attivismo ma sarebbero centinaia le persone che hanno dichiarato di non essere attivist* per avere una riduzione della pena, sostiene l’attivista. “Oltre a Pegasus, c’è anche un’altra società italiana, Hacking Team, che dal 2011 al 2017 ha fornito strumenti di spionaggio al governo marocchino come il software di nome Da Vinci, utilizzato per entrare nei dispositivi di attivist* e giornalist* per prendere i loro dati personali e usarli a proprio vantaggio”, sostiene Dihani. Le inchieste pubblicate da Citizen Lab e Privacy International, così come i documenti ottenuti da un gruppo di hacker anonimi, confermano che il Marocco è tra i Paesi a cui è stata venduta questa tecnologia di sorveglianza che può “infettare” da remoto telefoni e computer rubando dati al loro interno, scattare foto e registrare conversazioni.
Queste vicende mostrano quanto sia fondamentale e fragile il diritto alla privacy - minato dalla intollerabile sorveglianza segreta di governi che vogliono reprimere attivist* e giornalist* - per il suo ruolo imprescindibile nel garantire diritti collettivi come la libertà di espressione, di associazione e di informazione, diritti che l’Unione Europea sacrifica senza problemi nelle sue relazioni internazionali in cambio della vera priorità: mura che bloccano persone migranti.
Editing: Sara Manisera