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decolonizing narrative
Ottobre 27, 2023
DECOLONIZING NARRATIVE

Fare, pretendere e sostenere una buona informazione significa partecipare alla cura della nostra democrazia

Approfondimento di Chiara Pedrocchi

“Uno straniero massacrato e ucciso con una stampella”, “Donne e trans”, “La Shoah degli zi*gari”, “Il velo che va di moda da noi e fa male in Iran”, “Gli islamici pagheranno un affitto”: sono solo alcuni dei numerosi titoli discriminatori e ingannevoli utilizzati da giornali o altri media italiani per raccontare l’altro, alimentando una narrazione stereotipata di persone e comunità che costruisce muri e polarizza l’opinione pubblica. Lo ha spiegato bene Sara Lemlem, fondatrice della rivista Dotz.Media, una redazione formata da persone con background migratorio, in occasione dell’incontro “Media, protezione dei diritti umani e nuove narrazioni per un giornalismo di interesse pubblico”, svoltosi il 25 settembre 2023 presso l’Università Statale di Milano e organizzato da Voice Over Foundation in collaborazione con UniLibera. L’incontro, parte del ciclo “Decolonizing narrative”, aveva come obiettivo quello di analizzare lo stato di salute del giornalismo in Italia e avvicinare i partecipanti a un giornalismo di qualità, capace di raccontare, con etica, le complessità di quest’epoca.


Cosa si intende per giornalismo di interesse pubblico? 

“Il giornalismo di interesse pubblico è un giornalismo che racconta quelle storie che servono a tutelare lo stato di diritto e la democrazia”, dice Sabika Shah Povia, giornalista indipendente, moderatrice dell’incontro. Ed è proprio il concetto di giornalismo di interesse pubblico a fare da filo conduttore di tutti gli interventi. Per definirlo, però, serve una visione comune del concetto “interesse pubblico”, perché spesso le definizioni sono molteplici e complementari. Sara Lemlem sostiene che il concetto di interesse pubblico possa essere escludente perché rivolto solo a un pubblico ristretto; Arianna Poletti, giornalista indipendente e co-fondatrice di FADA Collective, invece definisce il giornalismo di interesse pubblico quello fatto in funzione del cittadino, e quindi dell’intera collettività. 

Un denominatore comune lo trova Elena Ciccarello direttrice della rivista lavialibera: “Fare buona informazione vuol dire partecipare alla cura della nostra democrazia condividendo informazioni, saperi e approfondimenti che sono fondamentali per il diritto dei cittadini e delle cittadine ad essere informati”. Secondo Ciccarello, inoltre, un giornalismo di questo tipo dovrebbe essere radicato nei territori, a stretto contatto e in collaborazione con i giornali e con le comunità locali. 

In realtà, il giornalismo considerato "mainstream" in Italia, a cui la maggior parte delle persone è abituata, non risponde ai bisogni delle comunità ma esclude grande parte dei gruppi sociali dal racconto. Non solo. Oggi la maggior parte dei media rinuncia all'approfondimento, alle inchieste e a quello che dovrebbe essere il compito principale del giornalismo: essere il cane da guardia della democrazia. Le ragioni sono molteplici: scarsa trasparenza della proprietà dei media, influenza commerciale e dei proprietari sui contenuti editoriali, concentrazione dei media sono alcuni elementi che pongono a rischio il pluralismo dei media in Italia, come ha sottolineato il Media Freedom Report del 2022.

Secondo Lorenzo Bagnoli, co-direttore di Irpi Media, testata di giornalismo d’inchiesta, ciò che è necessario oggi è un ecosistema informativo più sano, privo di competizione tra il giornalismo mainstream e quello indipendente, ma dove il primo faccia da base al secondo. E sopratutto dove ci sia un metodo alla base fatto di ipotesi investigative, di fonti verificate, di fact-checking e di cura. 


Nuovi media: pensieri nuovi, parole diverse 

Ma cos’è questo giornalismo indipendente che dovrebbe integrare la narrazione del giornalismo mainstream? Oltre alle testate più note e ai telegiornali esiste una galassia di nuovi media indipendenti. Un esempio è Scomodo, la redazione under 30 più grande d’Italia che offre un giornalismo di approfondimento senza perdere di vista le testate mainstream, a cui dedica una rassegna settimanale critica chiamata Parallasse. Il loro motto è: “Le pagine da scrivere servono ancora”. Un vero e proprio manifesto politico lanciato in un momento storico dove le pagine dei giornali sono sempre più dense di pubblicità e contenuti sponsorizzati e scritte quasi esclusivamente da persone privilegiate. 

Lo ribadisce anche Sara Lemlem, a partire dall’articolo “Redazioni di maschi bianchi e anziani” di Francesco Guidotti e Angelo Boccato. “È difficile parlare della mancanza di diversità nei media italiani, perché non abbiamo dati. L’unica associazione che si occupa di raccogliere dati sull’argomento è Carta di Roma. È molto difficile calcolare quante persone con background migratorio siano all’interno delle redazioni”. E questa assenza conduce a narrazioni parziali e razziste. Ne sono un esempio i corpi neri esposti e raccontati sempre in forma violenta, l’Africa rappresentata solo come continente abitato da bambini neri malnutriti e attraversato da scontri. 

Queste immagini e narrazioni favoriscono la creazione di un immaginario e quindi di una realtà falsa e distorta. Per alzare la qualità dell’informazione, è necessario, invece, lasciare spazio all’autonarrazione, e allenare lo sguardo a decostruire immaginari densi di bias e convinzioni profondamente sedimentati. Ma oltre a decostruire gli immaginari, i media dovrebbero iniziare a raccontare le varie forme di marginalità: le zone isolate, marginali e periferiche, gli ultimi, le baraccopoli sparse in tutta Italia, l’impatto del Covid-19 sulle persone più fragili e senza fissa dimora. È ciò che sottolinea Elena Ciccarello, spiegando come la rivista lavialibera abbia scelto la frase “pensieri nuovi, parole diverse” proprio per ribadire la necessità di raccontare storie con uno sguardo nuovo su ambiente, nuove generazioni, migranti e povertà. 


Un giornalismo di qualità necessita soldi

Un giornalismo di interesse pubblico, approfondito e di qualità richiede, però, fondi e finanziamenti. Oggi gran parte dei media, giornali, tv o nuovi media nati sui social sono finanziati da pubblicità, sponsor ed editori che spesso interferiscono con la linea editoriale del giornale o del media. Per chi lavora come giornalista indipendente, invece, la soluzione è scrivere bandi e trovare fondi in Europa o attraverso fondazioni internazionali. Arianna Poletti spiega come lavorano i giornalisti freelance: pubblicando e vendendo lo stesso articolo in più lingue. Una condizione che descrive molto bene quale sia la situazione della maggior parte dei freelance in Italia. Nel parlare di fondi Lorenzo Bagnoli sostiene che “i bandi europei sono un’occasione per iniziare a collaborare con testate e colleghi di altri paesi, fortificando così la rete”. Il tema, in ogni caso, è sempre quello di avere una comunità di colleghi a cui fare riferimento per rafforzare e migliorare la qualità del giornalismo e ottenere parallelamente più fondi. 


Il bisogno e la necessità di unirsi 

L’assenza di spazi, contratti dignitosi, posti di lavoro e la precarizzazione del mestiere hanno reso il giornalismo un ambiente ipercompetitivo e individuale, generando un diffuso senso di solitudine e stanchezza mentale. Per questa ragione la giornalista Alice Facchini, in collaborazione con Irpi Media hanno lanciato l’inchiesta “I rischi per la salute mentale dei giornalisti” per dare voce ai lavoratori autonomi e indagare le condizioni di lavoro dei freelance. 

Ed è sempre il bisogno di superare l’individualismo e lavorare in un’ottica di cooperazione che ha spinto un gruppo di freelance a fondare nel 2020 FADA Collective, un collettivo informale, oggi associazione di promozione sociale. Oltre ai sette fondatori, FADA Collective ha allargato il gruppo, creando una rete di oltre 50 giornalist* indipendenti che, ogni giorno, si scambiano consigli, contatti, bandi, offerte di lavoro ma soprattutto condividono esperienze, frustrazioni, preoccupazioni e provano, per dirla in grande, a sindacalizzarsi. “L’isolamento e la competizione nella quale ci troviamo a lavorare oggi in Italia sono spaventosi”, spiega Arianna Poletti. “Questo fa sì che tanti scelgano di rinunciare a fare giornalismo, accettando compromessi o entrando in realtà editoriali poco etiche. In realtà la forza di una rete e dello scambio può aiutare a superare la competizione presente oggi nel giornalismo italiano”. 

Un buon esempio di un giornalismo basato sul lavoro collettivo è anche quello proposto da lavialibera che, tramite la sua redazione itinerante e la stretta collaborazione con i giornalisti locali, riesce a raccontare diversi territori e aree marginali, poco raccontate. E poi c’è la redazione di Scomodo, all’interno dello spazio sociale Spin Time a Roma, diventato un luogo di incontro e condivisione per la città tutta. Qui, infatti, si incontrano redattori e redattrici ma anche studenti e lavoratori nel co-working messo a disposizione dalla redazione di Scomodo. 

Insomma, un altro giornalismo è possibile. Un giornalismo che ritorni alla sua essenza: il metodo, la verifica, l’incrocio delle fonti ma soprattutto la cura della persone. Un giornalismo al servizio dell’interesse dei cittadini e del bene comune che eviti di contribuire alla diffusione di polarizzazioni pericolose ma che sappia costruire spazi di ascolto, confronto e dialogo. E che faccia soprattutto le giuste domande al potere, quello che il giornalismo dovrebbe controllare. 

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