Giugno 14, 2023
DECOLONIZING NARRATIVE
Apartheid, non conflitto: per un’altra narrazione della Palestina
Approfondimento di Christian Elia, Q CODE MAG
Decolonizing Narrative è un ciclo di seminari ed eventi pubblici sulla libertà di espressione, i diritti umani, il giornalismo di interesse pubblico organizzato da Voice Over Foundation. L’obiettivo è sostenere nuovi percorsi di narrazione e di approfondimento che mettano al centro i diritti e le storie delle persone.
Per molto tempo si è discusso, come era giusto, di conflitti dimenticati. Attivist* e giornalist*, istituzioni internazionali ed esponenti politici si sono battuti per attirare l’attenzione dei media e delle opinioni pubbliche su quelle situazioni – nel mondo – dove c’era sofferenza, per farla conoscere, per provare a cambiare le cose. In questo senso, e in molti altri, la questione palestinese resta un caso unico. Perché a nessuno può venire in mente di negare che Palestina e Israele siano spesso in ‘prima pagina’.
Ma come se ne parla? Quali narrazioni si stratificano in quello che con ostinata, grossolana e scorretta pervicacia si continua a definire conflitto?
È una delle domande al centro del primo evento del ciclo Decolonizing Narrative: “Shrinking Spaces: libertà di espressione e protezione dei diritti umani in Palestina”, che si è tenuto il 18 Aprile 2023 presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano con il professore di Storia delle relazioni internazionali Piero Graglia, Giovanni Fassina dell’European Legal Support Center - ELSC, organizzazione indipendente che difende, con consulenza e assistenza legale gratuita, associazioni, ONG, gruppi e individui che si battono per i diritti dei palestinesi nell'Europa continentale e nel Regno Unito, Sarah Abdel Qader, del The Palestinian Institute for Public Diplomacy - PIPD, e Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Occupati Palestinesi. Quali sono le narrazioni da decolonizzare? Quali spazi si stanno restringendo?
Un tema allo stesso tempo attuale e di lungo periodo. Perché la questione palestinese non è dimenticata, ma è vittima di un caso unico al mondo di risemantizzazione. Quando si parla di Palestina, fatti e dati sono spesso manipolati. Ma quali sono questi fatti? Il primo è il più grave di tutti: il popolo palestinese, secondo quella che è la definizione delle Nazioni Unite del 1973, approvata nel 1976, vive una condizione di apartheid. Lo confermano Amnesty International e Human Rights Watch, che hanno svolto e continuano a svolgere, ricerche indipendenti. Espulsi dalla loro terra e dalle loro case, divisi e segregati da leggi, muri (lunghi 700 km e alti fino a 8 metri) e check-point, vivendo in costante condizione di paura e insicurezza, impoveriti dalla situazione che è loro imposta: questa è la vita quotidiana dei palestinesi in Cisgiordania, mentre la popolazione ebraico-israeliana è privilegiata dalle autorità in ogni aspetto della vita quotidiana.
Fatti, e dati. I Palestinesi, prima del 1948, erano il 70% della popolazione e possedevano l’89% della terra. Poi, dopo 800 mila profughi palestinesi nel 1948, si è arrivati a 6 milioni di profughi, tra interni ed esterni, dopo l’occupazione della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est nel 1967. Quanta terra resta, oggi, ai palestinesi? Meno del 40% della Cisgiordania, perché le colonie illegali israeliane occupano il resto, creando un sistema di frammentazione, segregazione ed esproprio alla popolazione palestinese. E questi sono i pilastri del concetto di apartheid. E Gaza? Sgomberata dall’occupazione nel 2005, oggi ci vivono 2 milioni di persone, sotto blocco militare israeliano dal 2007, in una terra dove ormai il 56% della popolazione è indigente, il 90% non ha accesso ad acqua potabile sicura, il 47% è disoccupato. Il tutto secondo dati UNRWA (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se la popolazione di Gaza è chiusa in quella prigione a cielo aperto che ricorda, “il carcere perfetto”, il Panopticon teorizzato da Jeremy Bentham, in Cisgiordania i civili palestinesi subiscono restrizioni della libertà di movimento, sottoposti a differenti status giuridici, alcuni alla legge marziale e corti militari, senza possibilità di ottenere concessioni edilizie: sono 150mila i palestinesi che vivono sotto la minaccia costante di demolizione.
E per finire, ci sono gli 1,3 milioni di palestinesi cittadini d’Israele che non possono vivere nel 68% delle città israeliane; votano, hanno partiti e deputati, ma fino al 1966 erano sottoposti a un regime ad hoc. Ora hanno la cittadinanza, ma non la nazionalità, salvo una conversione all’ebraismo, comunque vietata. E dal 2002 non sono possibili ricongiungimenti familiari tra membri che hanno status giuridici differenti. In un contesto che, ad oggi, conta 4236 detenuti palestinesi, 352 dei quali minorenni, senza un’accusa e senza vedere avvocati. Da settembre 2000 a febbraio 2017 sono stati uccisi 4868 palestinesi al di fuori di un conflitto armato, 1793 dei quali erano minorenni.
Questi sono i fatti. Eppure le narrazioni sono lontane da questo racconto di realtà. Come ha dimostrato nel febbraio 2023, durante l’attacco a Gaza, nell’ambito dell’operazione militare Operazione Scudo e Freccia, la stampa mainstream: non ci sono ‘scontri’, non c’è ‘conflitto’, perché semanticamente viene prodotta una sensazione di essere informati che è profondamente distorta. C’è un’occupazione, ci sono attentati o lanci di razzi, che producono punizioni collettive e indiscriminate e che non sarebbero accettate nessuna altra parte del mondo. Basti pensare a quel diritto alla resistenza, sancito dal diritto internazionale, che nessuno ha paura di riconoscere alla popolazione ucraina. La Palestina, i palestinesi, vivono in uno stato di eccezione permanente, come se per loro non valessero i principi universali che vengono invece riconosciuti a tutti.
Il convegno è stata l’occasione per analizzare le dinamiche narrative che, da decenni, ma in particolare dal 2000 in poi, orbitano attorno alla questione palestinese. Da un punto di vista giuridico, mediatico, umanitario. Non solo però le narrazioni vanno decolonizzate e riportate sui fatti e sui dati ma anche il diritto di critica. Come un riflesso incondizionato, legato a fattori differenti, anche le critiche alle politiche israeliane vengono tacciate di antisemitismo. Un fenomeno unico, ancora una volta. Chi si sognerebbe di immaginare come razzismo le critiche al governo italiano per la gestione dei migranti, o a quello francese per la riforma delle pensioni, o a quello russo per l’aggressione all’Ucraina. Eppure Israele, attraverso apparati ad hoc e attraverso una rete di sostenitori globale, accusa di antisemitismo chiunque – per opinione o per lavoro – metta in fila fatti e dati. Quello che si contesta, da sempre, sono le politiche dei governi israeliani. Nulla contro il popolo israeliano, men che meno agli ebrei in generale; sembra assurdo doverlo ricordare, ma accade ogni giorno – come ha documentato ELSC – che cittadini comuni perdano un posto di lavoro o venga processato per anti semitismo solo per un post sui social nel quale criticava il governo israeliano. Le autorità politiche israeliane, da Ben Gurion nel 1948 fino a Benyamin Netanyahu oggi, hanno attuato leggi, politiche e pratiche discriminatorie che privilegiano la popolazione ebraica israeliana rispetto a quella palestinese. Se non si riparte da qui, per eliminare le violazioni dei diritti umani e per riscrivere quel che accaduto in passato, non ci sarà alcuna soluzione possibile, ma resterà un dramma quotidiano per milioni di palestinesi che – oltre a subire apartheid e occupazione – si vedranno anche negare il diritto alla memoria e alla realtà.
Photo Credits: Giacomo Fausti