Gennaio 20, 2022
BLACKNESS
Fare politica significa lottare per la giustizia
La voce di Rahel Sereke, intervistata da Sara Manisera, FADA Collective
Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente in Italia. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione.
Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.
Intervista a Rahel Sereke, urbanista, attivista sociale e politica.
D: Ti puoi presentare, chi sei e di cosa ti occupi?
R: Mi chiamo Rahel Sereke, sono una donna di origine eritrea, italiana, nata a Roma nel 1978 ma milanese di adozione. Ho finito i miei studi universitari a Milano come urbanista e poi sono rimasta qui perché mi sono interessata ad alcune dinamiche e processi sociali e politici. Milano è una città sfidante per tutta una serie di questioni, in particolar modo c'è la necessità di contrastare le diseguaglianze. Negli ultimi anni ho trovato nella battaglia antirazzista una motivazione particolare e alla fine del 2013, insieme a un folto gruppo di persone di origine habesha (etiopi ed eritree), abbiamo costruito prima informalmente, poi istituzionalizzandola, un'esperienza di mutualismo e solidarietà nei confronti delle persone che attraversavano il Mediterraneo e la penisola verso il nord Europa. Abbiamo costituito Cambio Passo, un'associazione che, di fatto, ha contribuito a costruire la nomea di Milano come città dell'accoglienza.
D: Perché a un certo punto della tua vita hai deciso di impegnarti in politica?
R: Amo la politica e mi affascina sin dalla tenera età. Probabilmente questa passione è anche legata alla mia esperienza personale, alla necessità di avere un senso di giustizia che non ho mai visto riconosciuto. Sono nata straniera e come la maggior parte dei figli e figlie di immigrat*, ho acquisito la cittadinanza in quell'anno, tra i 18 e i 19 anni, quando la legge te lo consente. Ho subito pesantemente la mia condizione di non essere considerata cittadina italiana, non esclusivamente in termini di pregiudizio diffuso ma anche rispetto al rapporto con le forze di polizia. La prima volta che sono stata fermata ero in aeroporto, di ritorno da una gita scolastica e mi hanno trattata come se fossi chissà quale criminale. Di queste cose sicuramente ne è rimasta traccia dentro di me. Poi la tragedia del 2013 che ha colpito in modo specifico parte di quella che io considero una delle mie comunità di appartenenza è stata qualcosa di straziante a cui bisognava rispondere in modo pubblico. E quindi Cambio Passo nasce in quel momento, quando anche le politiche migratorie venivano irrigidite e si è creato un nemico immaginario, un capro espiatorio, ovvero lo straniero, su cui canalizzare un certo tipo di disagio sociale.
D: Durante il Blackn[è]ss fest tra le tante tematiche si è parlato di comunità QTIBIPOC (Queer, Trans, Inter, Black, Indigenous and other Person of Color). Perché secondo te è importante portare questo tema al festival?
R: La prima attività di cui mi sono occupata a Milano come attivista politica è stata la costruzione di uno sportello sulle discriminazioni multiple all'interno del progetto immigrazioni e omosessualità del CIG Arcigay. L'ho fatto perché io sono una donna che ama le donne e conosco alcuni dei pregiudizi che anche le comunità di appartenenza non europee hanno rispetto all'omosessualità. E questa cosa per chi emigra, non conoscendo il paese in cui arriva, è un limite perché se esiste un tabù nella comunità di appartenenza, non può essere la comunità di origine ad essere il primo supporto, a meno che non si nasconda l'orientamento ma è molto difficile farlo. Il tema necessita di essere affrontato in modo trasversale ed è per questo che fa bene parlarne sia all'interno delle comunità autoctone, sia nelle comunità di origine perché questo aiuta a costruire una propria identità o per lo meno a consolidarla. Parlarne aiuta a far emergere le barriere che esistono all'interno della o delle comunità in cui si vive. Blackn[è]ss fest è uno spazio sicuro e quindi era un luogo che ci ha consentito di affrontare questioni specifiche.
D: Parlando in generale del festival, cosa ne pensi di Blackn[è]ss fest e perché è importante uno spazio come questo in Italia?
R: Sono stata molto contenta di questo festival e contenta del fatto che Ariam e Jermay si siano assunti il rischio di parlare di una minoranza. Il rischio di apparire come escludenti esiste per le minoranze perché lo spazio della separatezza non è accolto come un percorso necessario da chi non è minoranza e a me ciò dispiace molto perché significa non avere memoria di alcuni progetti sociali e politici, come ad esempio, quello del femminismo che oggi è arrivato ad una nuova stagione ma è passato anche per una fase separatista in cui esisteva la necessità di creare spazi che consentissero di affrontare alcune questioni. Possiamo dire che spazi per parlare di razzismo in Italia non ce ne sono. C'è sempre qualcuno che non è minoranza pronto a dire che bisognerebbe parlare di razzismo ma non con toni arrabbiati, che bisognerebbe parlare con la polizia, che bisognerebbe fare alleanze con un partito sensibile alle tematiche che noi poniamo. Ovviamente tutti questi discorsi non si interrogano su quali sono le priorità dei e delle dirett* interessat*, né su come sono vissute, quindi per me Blackn[è]ss fest è stato un atto di coraggio e mi sono sentita onorata di ricevere l'invito.
D: Quali sono le anime del Blackn[è]ss fest e perché c'è chi vuole aprirsi di più e chi di meno?
R: Questo festival è nato all'interno di un processo molto più ampio dove ci sono tante anime che convivono insieme e che accoglie al tempo stesso questioni che non attengono solo alla nerezza. Io lo leggo come una necessità, un'esigenza di avere uno spazio per esprimere un bisogno. E proprio perché si tratta di processi, gli spazi devono essere sempre negoziabili.
D: Come vedi Blackn[è]ss fest in futuro?
R: Abbiamo incrociato tantissimi attivist*, artist* e mi piacerebbe che il secondo festival possa accogliere ancora più esperienze, portando anche uno sguardo legato ad altri territori perché Milano è molto diversa da altri contesti e per me è utile parlarsi, conoscersi e capire cosa accade altrove. Io immagino che l'orizzonte non sia quello del festival in sé ma quello di creare massa critica che possa orientare il cambiamento. Per fare ciò è fondamentale incontrarsi perché, al di là delle potenzialità dei social e del web, le esperienze dei soggetti razzializzati sono incarnate, per molt* passano attraverso i corpi e quindi necessario incontrarsi ed esserci.