Settembre 06, 2023
BLACKNESS
Essere felici in una società razzista è un atto di resistenza
La voce di Nogaye Ndiaye, intervistata da Sara Manisera, FADA COLLECTIVE
Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione.
Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.
Intervista a Nogaye Ndiaye, laureanda in giurisprudenza e divulgatrice su temi inerenti ai diritti umani, membro del comitato creativo del festival Blackn[è]ss.
D: Come ti chiami, ci puoi dire chi sei e cosa fai?
R: Mi chiamo Nogaye Ndiaye, sono una studentessa di giurisprudenza in procinto di laurearsi e sono una divulgatrice su temi e questioni inerenti ai diritti umani. Quando ero al quarto anno dell’università, ho aperto la pagina Instagram “Le regole del diritto perfetto”, prendendo spunto dalla mia serie preferita “Le regole del delitto perfetto”, in cui Annalise Keating fa l’avvocata. Ho sempre sognato di diventare avvocata. Da bambina, difendevo gli altri ma non riuscivo a difendere me stessa, quindi questo è diventato il mio spirito ma durante la pandemia ho cominciato ad avere delle difficoltà e non riuscivo più a stare al passo con gli esami e le lezioni, così attraverso questa pagina ho iniziato a parlarne. Parlavo dei miei problemi, del disturbo all’attenzione, dell’iperattività ma anche di tutta una serie di cose che imparavo sui femminismi, sul razzismo, sul neocolonialismo. Nella mia pagina sono arrivate tantissime persone con gli stessi disturbi che hanno iniziato ad aprirsi e condividere i loro problemi. Sharing is caring (condividere è prendersi cura): attraverso la condivisione di problemi individuali che sono collettivi, si può ricreare una rete e un tessuto sociale.
D: Dal modo in cui parli, tu ti occupi di diritti, di white privilege, di razzismo e femminismo con uno sguardo molto sistemico e intersezionale. Perché?
R: Tutto è collegato e le soggettività hanno diverse caratteristiche identitarie. Ad esempio, io sono una donna, una donna nera, proveniente da una classe sociale bassa con un background migratorio. Quindi in questa società, prima di essere una persona, vengo vista come una persona nera e già questo è uno stigma che mi si appiccica addosso da quando sono nata. Non mi considero un’attivista ma faccio una resistenza attiva perché noi viviamo in un mondo dominato da uomini bianchi, ricchi, borghesi, etero e cis e tutti gli altri sono emarginati dalla società. E io credo che l’unico modo per lottare contro il sistema in cui viviamo sia quello di coinvolgere tutte le parti. Ecco perché la lotta intersezionale deve essere collettiva perché non dobbiamo lasciare indietro nessuno. Un altro concetto a me molto caro è quello del privilegio. Avere un privilegio non è una colpa: essere nati in una certa parte del mondo o in una certa famiglia non è una colpa. Non essere consapevoli della posizione che si ha nello spazio diventa un problema perché diventi complice del sistema. Bisogna partire da lì, dal privilegio e dalla decostruzione di tutto quello che noi abbiamo normalizzato. Io sono una donna nera, bisessuale ma ho avuto il privilegio di frequentare l’università e di fermarmi un anno quando non sono stata bene, quindi sono più privilegiata rispetto a chi è costretto a lavorare nei campi dalla mattina alla sera. Lo stesso discorso del privilegio vale per la cittadinanza. Avere una cittadinanza europea ti permette di viaggiare e avere un privilegio immenso. Io per anni non l’ho avuta e ho normalizzato le file in questura alle 4 del mattino per rinnovare i documenti. Ho anche rischiato di non partire per gli Stati Uniti durante la scuola superiore per un problema al visto legato al mio passaporto senegalese. Insomma, io penso che il personale sia politico. Qualsiasi scelta che fai nella vita ha a che fare con la politica.
D: Cosa ne pensi del Blackn[è]ss fest e perché è importante uno spazio come questo in Italia?
R: Il primo anno del Blackn[è]ss fest non ho potuto partecipare ma è stato bellissimo vedere, seppur da lontano, così tante persone razzializzate tutte insieme. Ho partecipato al secondo anno come spettatrice e panelist ed è stato ancora più incredibile vedere così tante persone parlare di temi fondamentali come la salute mentale, l’arte e la danza nel mondo black, l’appropriazione culturale e il twerking. È un momento importante anche perché puoi togliere una maschera e sentirti in uno spazio sicuro. Piangi e ridi. Ti diverti e balli. L’esibizione è un momento di festa ma anche di collettività e di resistenza perché, ciò che diciamo sempre, “essere felici in una società razzista è un atto di resistenza”. Quindi essere lì a ballare dopo aver pianto durante un panel è una forma di resistenza: siamo felici di aver trovato una comunità, uno spazio accogliente, di poter esprimere noi stessi attraverso il nostro lavoro o il nostro attivismo. È stato tutto bellissimo. E quest’anno sono ancora più contenta perché faccio parte del comitato creativo.
D: Progetti e lotte future?
R: C’è un progetto in cantiere di cui ancora non si può dire molto ma l’obiettivo più imminente è quello di laurearmi. In questi anni, grazie a una serie di viaggi in Senegal, ho fatto pace con le mie radici e con mia madre. E proprio con lei stiamo pensando di lanciare un negozio online di indumenti e oggetti artigianali realizzati da mio zio in Senegal. Questo lavoro insieme ci permette di guarire tutte le ferite che ci siamo fatte in questi anni e di questo sono contenta.